Sessismo e linguaggio

Come riconoscere e combattere la violenza verbale contro le donne

Le parole della violenza di genere

Fischi, appellativi, saluti e apprezzamenti di ogni tipo da parte di perfetti sconosciuti accompagnano da sempre la quotidianità delle donne. Considerati per secoli in maniera superficiale come dei semplici gesti goliardici, innocui o persino galanti, oggi questi comportamenti vengono finalmente osservati sotto una lente diversa, che mette in evidenza il peso e le conseguenze che hanno per chi veste – suo malgrado – i panni di “bersaglio”.

Le parole hanno un peso!

Quale uso facciamo del linguaggio nella vita di tutti i giorni? Molto di quello che comunichiamo in una semplice conversazione è un'espressione più o meno volontaria del nostro contesto socioculturale e dei suoi valori. Per eliminare alla radice gli innumerevoli episodi di discriminazione o aggressione verbale in maniera davvero efficace è necessario riconoscere e “neutralizzare” espressioni e stereotipi comunemente accettati, che emergono anche nelle conversazioni più banali. Molti modi di dire, luoghi comuni e battute “divertenti” sulla diversità di genere contribuiscono alla creazione di uno scenario e di un rumore di fondo che inevitabilmente intacca e condiziona la quotidianità di ogni donna, amplificando di fatto un problema che è già di per sé molto ingombrante nella nostra società contemporanea. È un problema sottovalutato o sminuito, ma andrebbe preso molto sul serio: la narrativa tossica creata da un linguaggio sessista fa spesso da anticamera a fenomeni di violenza fisica, oltre che di abuso verbale, e contribuisce in maniera significativa a una percezione distorta della violenza di genere in ogni sua forma.

Catcalling

Prendiamo ad esempio un fenomeno molto diffuso: il catcalling.
Il termine definisce una tipologia di molestia verbale traducibile in senso più ampio negli apprezzamenti indesiderati perpetrati da sconosciuti ai danni delle donne nella loro quotidianità, mentre camminano per la strada. Secondo quanto riportato dall'organizzazione Hollaback!, movimento internazionale fondato nel 2010 con l'obiettivo di monitorare e contrastare la violenza di genere, l’84% delle donne lo ha subito almeno una volta nella vita. Il quadro attuale non è incoraggiante: il 79% (ossia circa 4 donne su 5) ha subito una molestia per strada prima dei 17 anni, il 57% prima dei 15 anni e il 9% addirittura prima di aver spento la decima candelina. In Francia è considerato un reato penale.

Catcalling - Dati di Hollaback!

Stereotipi

Tra i più noti possiamo trovare il classico “Non fare la femminuccia!”, che viene solitamente rivolto a un uomo che mostra una sensibilità superiore alla media dei suoi conoscenti, commuovendosi oppure lamentandosi durante uno sfogo. Secondo il pensiero comune, un uomo “vero” non dovrebbe mai farsi travolgere dalle emozioni e reagire “come farebbe una donna”, ossia mostrando in pubblico la sua fragilità. Si tratta di uno stereotipo che ha una doppia lama, in quanto nuoce sia alle donne, etichettate come persone deboli e incapaci di gestirsi in pubblico, sia agli uomini, costretti a reprimere ogni reazione spontanea che li faccia discostare troppo dall’immagine dell’uomo imperturbabile e tutto d’un pezzo. Evitare questa espressione è semplicissimo: basta un banale “Non lamentarti troppo!”.

Un altro stereotipo duro a morire è quello secondo cui le donne sarebbero per natura meno brave in alcune attività rispetto agli uomini. Il più famoso è quello della guida, ma lo stesso discorso può essere fatto per quelle attività o discipline eseguite o studiate per secoli esclusivamente da uomini. Nonostante la realtà dei fatti smentisca queste convinzioni, sono ancora molte le persone che credono ci siano delle fantomatiche capacità innate diverse (e immutabili) per uomini e donne; ma il successo in un determinato ambito dipende da molteplici fattori, non dalla semplice appartenenza a un genere particolare. Se un’amica appare sicura di sé alla guida sarebbe quindi senz’altro meglio evitare di esclamare cose come “Guidi davvero bene per essere una donna!”, credendo di fare un complimento; ci si può limitare alla prima parte della frase, senza sottolineare la presunta incapacità di tutte le altre.

Stereotipi sessisti

Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, più nello specifico, non è raro osservare delle differenze di trattamento tra professionisti dello stesso livello di competenza. In un ambulatorio, ad esempio, chi indossa il camice verrà chiamato quasi certamente “dottore” se è un uomo e “signorina” (non “dottoressa”) se è una donna, dando per scontato che quest’ultima non ricopra un ruolo di rilievo. Cambiando scenario, se la responsabile di un team invita a cena uno o due dipendenti uomini, il personale del ristorante darà quasi sempre per scontato che siano i convitati di genere maschile a pagare il conto, a prescindere dalla loro posizione lavorativa; a confermarlo è l’abitudine ormai consolidata di lasciare il menu senza prezzi (in quanto riservato all’ospite) alla donna seduta al tavolo, che sta facendo molto discutere negli ultimi anni.

Anche nella sfera personale sono tante le occasioni in cui si esplicitano concetti ormai superati e alquanto fuori luogo. Avrete sentito dire almeno una volta da un’amica quanto sia “fortunata” ad avere un ragazzo o un marito che si dà da fare in casa, preoccupandosi di dare una mano nelle faccende domestiche, in cucina o altro. E che dire del classico “Hai il ciclo?” quando ad una donna capita di essere tesa o infastidita per qualcosa? Come se non si possa essere mai di cattivo umore ma solo sorridenti, carine e gentili 24/7. Sono tutti schemi di pensiero che restituiscono una particolare visione della donna che, lavoratrice o non, deve assolutamente seguire un "copione" prestabilito e rispettare i cliché.

Micro e Macro Aggressioni verbali

Oltre agli stereotipi sessisti, è necessario riconoscere i modi di esprimersi che fanno trasparire una grave mancanza di rispetto per le donne, a prescindere dal contesto in cui si verificano. Dall’ufficio alla vita di coppia, arrivando anche alla sfera familiare, le situazioni in cui è possibile assistere a comportamenti e linguaggi violenti sono davvero molte: è fondamentale saper riconoscere toni e parole che non sono mai giustificabili e che vanno intesi come campanelli d'allarme per possibili situazioni d'abuso fisico e verbale.

Qualche esempio concreto? Le più riconoscibili sono sicuramente le minacce, più o meno velate: “Prova a sentire ancora X (che può essere un amico, un collega o un ex fidanzato) e vedrai che succede”, “Ti ho già detto mille volte che non devi azzardarti a contraddirmi” o “Se domani esci di casa vestita così vedrai che succede” sono tutte frasi che fanno intuire le conseguenze di un’ipotetica “disobbedienza” da parte della donna alla quale sono indirizzate. Sono quindi dei modi concreti finalizzati a condizionare e limitare fortemente la libertà di scelta e di comportamento, con lo scopo di affermare un’autorità indiscutibile all’interno della relazione.

Ci sono delle avvisaglie visibili anche prima di arrivare a questo livello di comunicazione violenta. Pensiamo ad esempio a quanto spesso vengono sottovalutate frasi come “Perché non mi hai risposto subito al telefono, con chi eri?”, “Perché sei sparita, avevi così tanto da fare?”, oppure “Perché non mi hai detto che avresti incontrato la tua amica oggi?”. Alla base di domande apparentemente innocue come queste c’è una volontà di controllare e monitorare ogni singola azione dell’altra persona, che si ritroverà ad essere accusata di disinteresse o addirittura di tradimenti, e a giustificarsi e chiedere scusa per ogni minima mancanza di attenzioni, anche solo per assenze molto brevi.

Una tendenza al controllo come quella appena citata è accompagnata spesso da episodi di svalorizzazione, colpevolizzazione e manipolazione (nota anche col nome di gaslighting), che hanno lo scopo preciso e subdolo di andare a intaccare l’autostima e la sicurezza della vittima per indebolirla, facendole dubitare anche della sua stessa memoria e salute mentale. Frasi come “Stai zitta, non capisci mai niente”, “È solo colpa tua, non lamentarti poi se divento aggressivo” o “Sei pazza, non è mai successo, ti inventi sempre tutto” sono assolutamente inaccettabili e possono sfociare in episodi di ulteriore violenza verbale (e non solo, purtroppo), con delle conseguenze anche molto gravi sull’equilibrio psicologico di chi li subisce in maniera reiterata.

Inoltre, il linguaggio violento non è solo quello che viene utilizzato direttamente verso l’interlocutore; se durante un dibattito qualcuno afferma senza troppi problemi che “Una che parla in questo modo uno schiaffo se lo merita proprio tutto” è ugualmente violento, poiché augura e giustifica una condotta del tutto errata, che porta con sé delle convinzioni deviate secondo cui una donna “che non sa stare al proprio posto” merita di essere rimessa in riga anche usando la violenza fisica. Un altro esempio di violenza verbale, che fin troppe volte capita di ascoltare o di leggere negli ultimi anni, è il macabro augurio che molti fanno a chi partecipa a missioni e iniziative umanitarie verso rifugiati o immigrati: “Visto che li difende tanto, sicuramente le piacerebbe pure essere stuprata da questa gente”. Al di là delle convinzioni politiche di ognuno, una frase così provoca danni su ogni fronte, portando avanti generalizzazioni, accuse e insinuazioni gravissime, spesso sminute come esagerazioni o addirittura come commenti goliardici.

I media e la violenza sulle donne

I media hanno un ruolo fondamentale in questo discorso: quante volte abbiamo sentito parlare di violenza sulle donne in tv, sui giornali o sul web? Come viene raccontato questo fenomeno? Spesso la tendenza è quella di indagare in maniera morbosa su quanto è accaduto, finendo quasi per colpevolizzare le vittime di violenza: si cerca, ad esempio, un movente o una giustificazione del reato nei comportamenti della vittima, oppure nel modo in cui la stessa era vestita al momento dell’aggressione. In questo contesto capita di sentire frasi terribili e totalmente senza logica come “aveva bevuto troppo”, oppure “indossava una minigonna”, lasciando intendere che la colpa della violenza possa essere accreditata alla vittima, invece che al suo aggressore.

La violenza verbale dei media

Proprio riguardo al colpevole, sui media c’è la tendenza a indugiare in maniera ossessiva sui motivi che hanno portato quella determinata persona a commettere la violenza: gli stessi in molti casi risultano superficiali, ma nonostante ciò vengono presi in considerazione come elementi necessari per comprendere meglio il gesto come se, di nuovo, questo possa essere giustificato in qualche modo. Ci troviamo di fronte a frasi del tipo “lo aveva provocato ma poi gli aveva detto di no”, oppure “quel sorriso di troppo lo ha scatenato”. Frasi senza dubbio figlie di una retorica sensazionalista che tenta di mettersi nei panni del carnefice, per trovare ancora una volta una giustificazione al suo gesto.

La televisione e la cronaca nera

Quando sentiamo parlare di media e di racconto del femminicidio, vengono subito in mente i vari talk show che cercano di conquistare fette di share andando ad analizzare anche elementi totalmente superflui ed estranei al fatto: spesso, quando la televisione racconta episodi di cronaca nera va alla ricerca di possibili conoscenti dell’assassino o della vittima, oppure dei compaesani, o ancora dei parenti del carnefice. Di solito a queste persone vengono poste domande banali, che tendenzialmente mirano ad ottenere sempre le stesse risposte, per poi dire laconicamente “sembrava un così bravo ragazzo, salutava sempre i vicini”.

Oltre alle domande a persone totalmente estranee al femminicidio, la televisione e in generale tutti i media indugiano molto anche sui dettagli e sui particolari morbosi, che vengono utilizzati per ottenere click o fare audience. Così vengono messi in risalto le modalità e i particolari dell’omicidio o della violenza: dalla descrizione accurata del luogo fino al vestiario della vittima, passando per i metodi coercitivi utilizzati dall’aggressore. Capita di sentire dettagli come “è stata massacrata con questo oggetto, senza pietà”, come se simili particolari fossero utili ad affrontare veramente un problema complesso come il femminicidio.

Il termine "femminicidio" è inoltre oggetto di dibattito linguistico. Si parla di femminicidio nel caso di reato di natura oppressiva e patriarcale, che ha lo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità della vittima. Un concetto molto più ampio di quello di omicidio, applicabile invece alla generalità dei casi in cui un essere umano toglie la vita ad un altro essere umano, indipendentemente dal sesso o dalle ragioni dietro il gesto. La questione non è puramente stilistica: non si tratta di una forzatura o di una pretesa di precisione, e questo è dimostrato anche dal fatto che il tema è entrato all’interno del dibattito legislativo. In Italia, infatti, i vari discorsi sul tema sono sfociati nel Disegno di Legge n.93 del 2013, il primo ad introdurre il termine “femminicidio” nel diritto penale. La distinzione tra i due termini è in realtà fondamentale per non “lasciare le donne senza ragioni, senza parola, e senza gli strumenti per rimuovere tale violenza”, come sostiene l'antropologa Marcela Lagarde, rappresentante di spicco del femminismo latino americano e tra le prime teorizzatrici della definizione di femminicidio.

L'ossessione per l'aggressore

Come accennato in precedenza, la cronaca nera indugia molto anche sul ritratto del carnefice, che di solito si concretizza in una serie di servizi o lunghi approfondimenti sul passato dell’assassino, sulla sua vita privata o sui suoi profili social. “Sportivo, credente e ottimo lavoratore: il ritratto di X”, è un titolo tipico per giornali o media online. Di nuovo, come se tutto ciò fosse pertinente e utile. Altre volte il carnefice viene quasi “compatito” e giustificato nel suo gesto omicida, per una serie di fattori esterni come il lavoro (“era disoccupato”). Senza contare le espressioni come “l’ha uccisa perché l’amava troppo”, confondendo il concetto ben più alto di "amore" con quelli di possessione e violenza.

Il click baiting e le minacce sul web

Sul web, in generale, i portali cercano di realizzare titoli accattivanti per ottenere più click: questo è piuttosto diffuso e in parte anche giustificabile, per chi vive di visite. Lo diventa meno quando si parla di omicidi e violenze: le testate giornalistiche tendono a fare del click baiting spudorato pur di ottenere traffico, utilizzando spesso dei titoli sensazionalistici per attirare l’attenzione del lettore e, in questo modo, la sua visita sulla pagina. E così, scrollando il dito sullo smartphone, alcune volte ci si imbatte in titoli come “Ecco cosa le è successo per aver insistito troppo”, oppure “Una parola di troppo, ecco cosa le ha fatto”. Clickbait puro, e anche squallido.

Anche il testo dell’articolo spesso risulta forzato e orientato solo ad attirare visite, più che a cercare la verità: molte volte si privilegia lo storytelling più torbido e cupo, senza tenere in considerazione le fonti o il reale svolgimento delle indagini, dando per scontate ricostruzioni o indiscrezioni non verificate.

Le minacce il click baiting

Sono in molti ad utilizzare i social network come fonte di informazione senza spesso tenere in considerazione la scarsa attendibilità delle fonti e l'esagerazione della notizia a scopo commerciale. In aggiunta a ciò, un articolo o un post condiviso sui social è in molti casi commentabile, senza moderazione. E così succede che alla violenza si aggiunge altra violenza: nella sezione commenti spesso ritroviamo minacce e pesanti insulti, come se il web fosse una piattaforma che permette agli aggressori di agire impuniti. I bersagli di solito sono vip e celebrità, che vengono presi d’assalto (a volte con vere e proprie minacce) sui profili social dei giornali web. Ma anche la gente comunque a volte si ritrova sulla cosiddetta gogna social, in balia di orde di commentatori che spesso leggono solo i titoli sensazionalistici di cui parlavamo prima. Una spirale di violenza verbale che cresce e si autoalimenta, fino al prossimo titolo da clickbait.

Conclusione

Come abbiamo avuto modo di vedere, dunque, sono diversi i modi in cui si manifesta la violenza verbale nei confronti delle donne: non si tratta solo di singoli episodi, ma di fatti ricorrenti che vengono raccontati dai media in modo superficiale e crudele, nella maggior parte dei casi per ottenere più audience, più click, più visibilità e con scarsa attenzione alle conseguenze che una narrativa di questo tipo porta con sé.

La consapevolezza è il primo passo verso la comprensione e la prevenzione di un problema delicato e complesso come la violenza di genere: per combatterlo bisogna lavorare soprattutto sull’educazione, insegnando agli adulti di domani il rispetto per la figura della donna, troppo spesso soggetta a ingiustizie, condizionamenti e maltrattamenti per la sola, assurda “colpa” di appartenere a un genere diverso.

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“Donne in Rete contro la violenza” è la prima associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali gestiti da associazioni di donne. La Rete conta più di 80 centri distribuiti sul territorio italiano.

Impegnandosi per un cambiamento del linguaggio, Babbel fa proprio l’impegno decennale di D.i.Re per un cambiamento culturale che contribuisca a eliminare la violenza contro le donne. Diventare consapevoli degli stereotipi nascosti dietro la lingua che usiamo tutti i giorni, e abbandonarli, è fondamentale perché significa fare spazio a relazioni tra i sessi incentrate sul riconoscimento dei diritti e della libertà delle donne”. Antonella Veltri, presidente di D.i.Re