L’importanza del linguaggio e dell’uso corretto delle parole richiama l’attenzione verso una particolarità della lingua italiana: il suo sessismo. Probabilmente, questo mutamento trova la sua origine storica e culturale proprio nell’evoluzione dell’uso quotidiano della lingua da parte dei parlanti – un esempio su tutti: la sostituzione dell’articolo neutro latino con l’articolo maschile – ed è proprio da qui che dobbiamo agire per limitare ed infine evitare un impiego sessista della lingua.
Seguendo le regole grammaticali, se in una frase è presente un aggettivo che si riferisce a due o più nomi, questo viene declinato al plurale e mantiene il genere dei nomi se essi sono tutti maschili o tutti femminili. Se invece i nomi sono di genere diverso, l’aggettivo viene declinato al maschile plurale anche se ci si riferisce ad un gruppo formato da cento donne ed un solo uomo. Una semplice soluzione per evitare questo problema è quella di concordare il genere dell’aggettivo con il sostantivo che esprime il numero maggiore, invece che con il solo nome di genere maschile. La regola della concordanza si basa sulla libera scelta di ogni persona ma si tratta in ogni caso di una regola più egualitaria e che offre nel contempo maggiore libertà alla scrittura.
L’impiego di un linguaggio stereotipato ha causato nel tempo l’inclusione del genere femminile all’interno del genere maschile, il quale viene utilizzato per riferirsi sia a uomini che a donne, come nel caso dei sostantivi “cittadini” e “spettatori”. Vengono inoltre utilizzate regolarmente le forme maschili per indicare titoli professionali riferiti anche alle donne, come ad esempio: “ingegnere” invece di “ingegnera”, “chirurgo” e non “chirurga”, “sindaco” al posto di “sindaca”. Purtroppo, l’adattamento del linguaggio alla realtà sociale è ancora debole sia nella comunicazione quotidiana, sia in quella istituzionale. I titoli di genere grammaticale maschile definiscono tuttora titoli prestigiosi e professionali come “ministro”, “avvocato”, “rettore” o “magistrato”, sebbene si tratti di posizioni ricoperte anche da donne.
Il motivo di questo atteggiamento linguistico è puramente culturale. Sono ancora troppo poche le forme femminili che indicano ruoli professionali e istituzionali ricoperti da donne, e nella maggior parte di casi si tratta di ruoli tradizionalmente percepiti come femminili, come ad esempio: “maestra”, “infermiera”, “nuotatrice”, “cuoca” ecc.
Un utilizzo corretto della lingua permette una rappresentazione della donna all’interno della società non solo più equa, ma anche più realistica.
Negli ultimi anni, i media e le istituzioni hanno posto più attenzione all’utilizzo del genere femminile per i vari ruoli politico-amministrativi e le professioni. Oggigiorno è possibile leggere su ogni quotidiano le parole “ministra” e “deputata”, oltre che di varie risoluzioni antidiscriminatorie all’interno del linguaggio burocratico. “Diritti della persona” ha un valore più equo e meno esclusivo rispetto a “diritti dell’uomo” e “storia dell’umanità” ha un significato più ampio e meno discriminatorio di “storia dell’uomo”.
L’uso sessista della lingua italiana può solo portare ad un effetto di esclusione e ad un rafforzamento degli stereotipi sul piano sociale. Di conseguenza è necessario adottare un linguaggio che non privilegi più solo il genere maschile, ma che sia rispettoso per entrambi i generi.