Con i Mondiali avviati a pieno ritmo, le espressioni più colorite del gergo calcistico brasiliano come ‘jogo bonito!’ e ‘golaço!’ hanno ormai superato ogni confine per entrare a far parte del vocabolario di ogni appassionato di calcio, a testimonianza della vivacità della cultura calcistica brasiliana e del suo impatto internazionale.
Eppure, se torniamo indietro nel tempo di appena un secolo, all’epoca delle origini del calcio brasiliano, dobbiamo riconoscere l’influsso di un’altra nazione ben più piccola e vincitrice di un solo titolo di Campioni del Mondo (rispetto ai cinque del Brasile): l’Inghilterra.
Due palloni, una pompa a mano e un regolamento
Furono due uomini in particolare a svolgere un ruolo determinante nel portare il calcio in Brasile.
Charles Miller, nato a San Paolo da padre scozzese e madre brasiliana di origini inglesi, fu mandato a studiare a Southampton, in Inghilterra, dove imparò anche a giocare a cricket e a calcio. Quando tornò in Brasile si portò dietro due palloni, una pompa a mano e il regolamento di gioco.
Nella sua biografia di Miller, l’autore John Mills cita le parole di un giornalista di San Paolo, che descriveva in tono perplesso l’abitudine degli sportivi inglesi di radunarsi nei fine settimana “per passarsi a calci qualcosa che assomiglia a una vescica di bue, derivandone grande soddisfazione, alternata a momenti di scontento quando questa sorta di vescica giallastra finiva in un rettangolo formato da dei pali”.
Miller ebbe un ruolo fondamentale nella fondazione del São Paulo Athletic Club, giocando egli stesso nella prima squadra, ovviamente nel ruolo di attaccante.
Nel frattempo, anche il giovane rampollo di una ricca famiglia anglo-brasiliana, Oscar Alfredo Cox, stava scoprendo le gioie del calcio durante i suoi studi in Svizzera. Una volta tornato in Brasile, organizzò la prima partita a Rio de Janeiro, nel settembre 1901. Si era intanto sparsa la voce di quanto stava facendo Miller a San Paolo, così Cox partì per il sud con un gruppo di amici e i due finalmente si incontrarono sul campo da gioco. Si sfidarono due volte: entrambe le partite finirono in pareggio. Un anno dopo, a soli 22 anni, Cox fondò la sua squadra, il Fluminense Football Club.
L’eco dell’inglese si sente ancora oggi nelle parole del gergo calcistico brasiliano: il terzino centrale, in inglese “centre-back”, è a volte chiamato anche beque; un giocatore davvero bravo è un craque, dall’inglese “crack” (nel suo significato di “fuoriclasse”); bisogna chutar (da “shoot”, tirare) il pallone per fare gol, e se ne fai abbastanza, la tua time (da “team”, squadra) porterà a casa il troféu (in inglese “trophy”, trofeo).
Il calcio come passione nazionale
Nel 1919, come nota lo scrittore David Goldblatt nel suo “Libro completo sul calcio” (in originale: “The Ball is Round: A Global History of Football”), il derby locale tra le squadre di Rio attirò 18.000 spettatori, con altre 5.000 persone rimaste fuori dallo stadio senza biglietti.
Perché il calcio ha avuto un’ascesa così fulminante in Brasile?
L’accessibilità di sicuro è stato un fattore. Tutto quello che serviva era uno spazio pianeggiante (e a volte nemmeno quello) e un pallone, senza attrezzature speciali. Eppure non basta questo a spiegarne la rapida diffusione: basta pensare all’India e alla Cina, nazioni di dimensioni paragonabili che non hanno però adottato il calcio con lo stesso entusiasmo del Brasile, dove è invece diventato una religione, una filosofia, un’identità – e una lingua.
In Brasile, il pallone – bola, che è femminile, diversamente dal maschile tedesco Fußball – è qualcosa da custodire e accudire preziosamente. La cosa peggiore che si possa fare è pisar na bola, calpestare la palla. In quel caso puoi anche pendurar as chuteiras, appendere le scarpe da gioco, e tirar o time de campo, levare la squadra dal campo e abbandonare la partita perché ogni speranza è persa. Se le cose vanno in modo disastroso puoi aver subito un maracanaço – una parola che si riferisce alla sconfitta del Brasile da parte dell’Uruguay nello stadio di Maracanã, nella finale dei Mondiali del 1950, ancora oggi un trauma collettivo per i brasiliani.
Ma torniamo alle espressioni più positive. La parola golaço ad esempio non è riservata solo ai gol più spettacolari: si può usare per qualsiasi impresa straordinaria, come ad esempio conquistare un cliente con una fantastica presentazione in Powerpoint. È importante fare una buona impressione nel vestir a camisa (indossare la maglia della squadra) quando si rappresenta la propria azienda. E se poi si finisce per accaparrarsi per sé il cliente e avviare la propria impresa, be’, tutti ogni tanto abbiamo bisogno di un po’ di sano egoismo – come nel prendere un calcio d’angolo e convertirlo in un gol di testa, bater o escanteio e cabecear a bola. Dopo tutto è anche quello un pontapé inícial (calcio d’inizio), un nuovo inizio.
Tempi supplementari
Nessuno vuole che la propria squadra sia nella “posizione lanterna”’, estar na lanterna – ultima in classifica.
Tutti vogliono “mangiare la palla”, comer a bola – giocare benissimo.
Nessun portiere vuole “prendersi un tacchino”, levar um peru – fare un errore madornale.
Ora che avete qualche conoscenza dello slang, provate il nostro quiz sulle espressioni del gergo calcistico brasiliano!
Photo 1: ‘World Cup football – Soccer ball with flags of different countries’ ©iStock.com / andresr
Photo 2: Charles Miller & Oscar Alfredo Cox | CC0 1.0
Photo 3 ‘Maracana Stadium’ ©iStock.com / CelsoDiniz