Quali sono le lingue meno parlate al mondo?

Ci sono molte lingue in via di estinzione parlate da un piccolo gruppo o anche da una sola persona. Ecco cosa si sta facendo per salvarle.

Illustrazioni di Chaim Garcia

Attualmente, ci sono nel mondo oltre 2.000 lingue in via di estinzione e la velocità con cui idiomi e dialetti muoiono è allarmante. Secondo il National Geographic, scompare dalla faccia della terra una lingua ogni 14 giorni, e poche lasciano tracce riconoscibili. Questi idiomi tendono a essere parlati solo da alcuni anziani in piccole comunità e – poiché imparare un linguaggio morente raramente alletta chi cerca di assicurarsi un posto in un’economia globale – le generazioni più giovani non si preoccupano nemmeno di impararli dai loro genitori o nonni. Nella maggior parte di queste lingue a rischio di estinzione manca anche un sistema di scrittura, cosa che rende la loro salvaguardia una sfida ancora più scoraggiante.

Quindi quali sono le lingue meno parlate al mondo, quelle più vulnerabili  e cosa si sta facendo per salvarle?

Lingue che svaniscono

Queste quattro lingue sono a rischio di scomparire completamente nel giro di poche generazioni.

1) HANTI: lo parlano meno di 10.000 persone

Diviso in tre gruppi di dialetti principali e parlato principalmente in Siberia occidentale, l’hanti è un linguaggio in “modalità sopravvivenza”: i madrelingua ora sono meno di 10.000. L’hanti ha un sistema di evidenziazione, che richiede a colui che lo parla di indicare grammaticalmente se ha assistito a qualcosa in persona o lo ha saputo per sentito dire. Questa affascinante caratteristica conferisce ai parlatori di Hanti una percezione unica dei fatti e della realtà, qualcosa di particolarmente rilevante nell’attuale era delle false notizie.

2) ONGOTA: lo parlano 12 persone

L’ongota è parlato nell’Etiopia sud-occidentale da 12 anziani. È un linguaggio morente e verrà probabilmente sostituito dal suo concorrente più prossimo, la lingua tsamai. Ci sono già molti scambi di codici tra ongota e tsamai  ma lo tsamai è chiaramente dominante. Poiché gli uomini di ongota si sposavano con donne della tribù ts’amakko, erano le madri ts’amakko che insegnavano alla generazione successiva la loro lingua, lo tsamai. I bambini non imparavano l’ongota dai loro padri che avevano smesso di parlarlo per evitare il disprezzo da parte dei ts’amakko, i quali non apprezzavano lo stile di vita ongota: non possedevano bestiame e sopravvivevano per lo più come cacciatori-raccoglitori. La ricchezza influisce sul prestigio attribuito a una lingua in colte culture diverse attorno al mondo e l’ongota non fa eccezione.

3) S’AOCH: lo parlano 10 persone

La scomparsa linguistica è vertiginosa continua in Cambogia, un paese che in questo secolo ha visto 19 lingue avviarsi all’estinzione. Una di queste, il s’aoch, è parlata da dieci persone in un villaggio di 110 abitanti. Questa cultura, una volta stabile, è stata decimata dagli khmer rossi negli anni ’70. Il regime comunista ha estirpato i s’aoch dalla loro terra e li ha rinchiusi in campi di lavoro, vietando loro di parlare la propria lingua, uccidendone così la cultura e religione e spezzando il legame animista con la terra. I sopravvissuti, incapaci di essere autosufficienti, fuggirono poi sulla costa per vendere la loro manodopera, condannati alla povertà e all’imminente estinzione della loro cultura. La denigrazione della loro lingua e delle loro tradizioni è stata totalmente assimilata dai membri del gruppo, che si riferiscono a se stessi come taowk, cioè “senza valore” e che non mostrano alcun desiderio di mantenere la propria lingua poiché anche ai loro stessi occhi non ha alcun valore.

4) NJEREP: lo parlano quattro persone

Il villaggio di Somie in Mambila (nella provincia di Adamawa, in Camerun) ospita una manciata di persone che può pronunciare poche parole e frasi in njerep. Non si possono nemmeno definire “semi-parlanti”, ma piuttosto “depositari del ricordo” di una lingua, che nelle sue fasi finali è stata usata soprattutto per i saluti, le canzoni, le battute e la condivisione dei segreti. La documentazione resa pubblica nel 2000 ha rilevato che solo quattro persone alla fine degli anni ’90 usavano il njerep a casa e solo un anziano del gruppo, Mial, poteva davvero avere conversazioni in lingua.
In una canzone riportata dai ricercatori, Mial si è allontanato dai soliti temi tradizionali – gli eventi storici tramandati oralmente – per lamentarsi del fatto che i giovani mostravano disprezzo per il njerep, ridendo ogni volta che Mial lo usava per comunicare. Questo spiega il costante cambiamento di codici osservato dai ricercatori, con il njerep usato scarsamente da persone che preferiscono ora esprimersi in altre lingue. Una quinta persona, presumibilmente colui che aveva la migliore conoscenza del njerep, è morta nel 1998.

 

Lingue parlate da una sola persona

Alcune lingue fluttuano nel limbo. L’Atlante UNESCO delle lingue in pericolo ne elenca 18 parlate da una sola persona, tra cui apiaka, diahoi e kaixana in Brasile; patwin, pazeh, tolowa e wintu-nomlaki negli Stati Uniti; dampal e take in Indonesia; e bikya e bishuo in Camerun. Queste ultime due non sono state documentate dal 1986, quindi il loro stato attuale è sconosciuto.

 

Salvare le lingue in via di estinzione

In questo scenario di incredibile perdita, la speranza viene mantenuta viva da istituzioni e progetti che cercano di salvare ciò che è rimasto. A metà degli anni ’90, i linguisti si sono affrettati a documentare le lingue a rischio di fronte a un allarmante tasso di estinzione. Preoccupati dall’imminente scomparsa di così tanti idiomi e armati di nuove tecnologie digitali in grado di registrare, raccogliere, archiviare, analizzare e diffondere informazioni in modo efficiente, hanno raccolto fondi, realizzato progetti, esercitato pressione sui legislatori e fondato istituzioni per evitare danni futuri e riparare il più possibile quelli già fatti.

Endangered Languages Documentation Programme

Questo progetto è stato fondato nel 2002 con lo scopo di preservare le lingue a rischio di estinzione. Non solo finanzia progetti specifici sviluppati da studiosi, ma fornisce anche formazione, a Londra e in tutto il mondo, sulla metodologia necessaria per il lavoro di ricerca. Ha finanziato oltre 300 progetti diversi, molti dei quali nell’Africa sub-sahariana, nel sud-est asiatico, nel Medio Oriente e nell’America centrale e meridionale.
Uno di questi riguardava il lavoro di documentazione di Graziano Sava sull’ongota. Sava arrivò al villaggio parlando solo lo ts’amakko. La sua ricerca, consistente nella registrazione audio dal vivo dell’ongota, ha anche ispirato un documentario che mostra Sava interagire con – ed essere corretto da! – coloro che parlano la lingua e tentano pazientemente di comunicare con lui.

Il  Living Tongues Institute for Endangered Languages

Questa iniziativa è partita nel 2005 e ha sviluppato progetti in 15 paesi diversi. La metodologia utilizzata include la formazione di madrelingua per registrare parole e frasi nella lingua natia. Queste informazioni sono usate per creare “dizionari parlanti” con migliaia di parole e immagini. Responsabilizzando la gente del posto, l’istituto fornisce loro le competenze che gli consentono di diventare assistenti di ricerca e ambasciatori della propria lingua nel mondo.
L’istituto crede nella proprietà intellettuale da parte della collettività. Manda infatti copie del materiale raccolto alle comunità soggetto della ricerca, e permette loro di prendere la decisione finale su ciò che può essere divulgato pubblicamente. Crea anche dizionari consultabili online: ce ne sono più di 100 da consultare gratuitamente!

Native American/Native Hawaiian Museum Services

Il responsabile di questo programma federale è l’Istituto degli Stati Uniti per i Servizi di Musei e Biblioteche. L’iniziativa fornisce finanziamenti a tribù, villaggi, società e organizzazioni, contribuendo a sostenere tradizioni, conoscenze e lingue. Uno dei progetti finanziati è la digitalizzazione di un dizionario con registrazioni audio per la nazione indiana di Quinault. Un altro è lo sviluppo di una mostra interattiva permanente nel Museo Nazionale di Seneca-Iroquois denominata “Thanksgiving Address, che comprende le registrazioni audio dei membri della nazione dei Seneca che parlano appunto l’omonima lingua.

Recovering Voices

Questo programma, creato dall’Istituto di istruzione e ricerca Smithsonian, sviluppa lo stesso tipo di iniziative, che includono anche un festival cinematografico annuale con film che parlano di lingue diverse in tutto il mondo e degli sforzi fatti per rivitalizzarle. Questi tentativi hanno innescato risultati positivi, come la rinascita della lingua parlata dalla tribù di Miami dell’Oklahoma attraverso documentazione scritta raccolta un secolo fa.

The Endangered Language Alliance

Con sede a New York City, la ELA si concentra sulle comunità linguistiche della stessa New York dove si parlano oltre 800 lingue diverse. 


La domanda, a questo punto, è d’obbligo: ci sono davvero successi nella rivitalizzazione delle lingue? Ecco qualche esempio:

 

Una storia di successo: la rivitalizzazione dell’Hawaiano

La storia hawaiana è intimamente legata alla colonizzazione. Il linguaggio rimase non scritto fino al 1814, quando un nativo hawaiano che viveva in Inghilterra scrisse il proprio libro di ortografia, grammatica e dizionario. Entro il 1820, nelle Hawaii era stata ampiamente adottata una forma standardizzata di lingua scritta. Ben presto, il Paese stampò un proprio giornale e pubblicò una propria traduzione della Bibbia. Intorno al 1840, furono inaugurate scuole e fu istituito il Dipartimento dell’Istruzione. Questa sistematizzazione a livello istituzionale di lettura e scrittura portò alle Hawaii a un altissimo livello di alfabetizzazione in un breve lasso di tempo, ma provocò anche dannose divisioni razziali e di classe. L’inglese, la lingua delle persone colte, acquistò prestigio e l’hawaiano gradualmente perse influenza culturale. Una serie di eventi portò alla sua messa al bando nel 1896, culminata con l’annessione delle Hawaii da parte degli Stati Uniti nel 1898. La situazione raggiunse proporzioni bizzarre quando nel 1922 la lingua hawaiana fu introdotta come lingua straniera nella nuova Università delle Hawaii. Accademici, insegnanti e studiosi hanno tuttavia iniziato a rivalutare la lingua negli anni ’50, studiandone la cultura e le tradizioni del popolo hawaiano, compilando un ampio dizionario, ispirando gli studenti nelle scuole a imparare il linguaggio (che era ancora parlato dai loro nonni), motivando gli studenti universitari a iscriversi ai corsi di lingua hawaiana, trasmettendo programmi radiofonici e con molti altri sforzi culminati nella reintroduzione dell’Hawaiano come lingua ufficiale accanto all’inglese nel 1978. Successivamente sono state fondate scuole e sono state approvate nuove leggi per promuovere l’uso ufficiale e la diffusione del linguaggio. Negli anni ’90, hanno iniziato a emergere siti web e, dopo una pausa di 100 anni, gli studenti si sono nuovamente diplomati con l’Hawaiano come prima lingua.
Il XXI secolo ha visto la comparsa di master e dottorati in lingua e letteratura hawaiana, e il Ministero dell’Educazione dello Stato delle Hawaii è ora seriamente impegnato nella promozione di questo idioma attraverso l’immersione linguistica. L’hawaiano è davvero rinato!

Lingue minoritarie in ascesa

L’hawaiano non è l’unico linguaggio che è stato rivitalizzato. Anche il maori in Nuova Zelanda e l’ebraico in Israele hanno avuto storie di successo, mentre il cornico in Inghilterra mostra una crescita promettente come linguaggio “di ritorno”. Lo scopo di documentare le lingue non deve essere semplicemente quello di metterle in vetrina come oggetti rari. La diversità linguistica è vista dagli studiosi come affine alla biodiversità. L’estinzione di numerose specie di flora e fauna ci rende meno adatti alla sopravvivenza, proprio come l’estinzione di una lingua ancora da studiare chiude la porta alla conoscenza delle piante, dell’ambiente e delle intuizioni nella mente umana che non siamo ancora stati in grado di comprendere. La salvaguardia della conoscenza implica la possibilità di rivitalizzare con successo le culture in declino o in stato di abbandono. Di conseguenza, non dovremmo parlare di lingue “morte” una volta che sono state ampiamente documentate. Sono solo momentaneamente in coma o “congelate”, in attesa di un momento più illuminato in cui la loro unicità e bellezza saranno celebrate invece che disprezzate.

Le lingue vivono finché le parliamo.

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