Ogni scrittore crea per ogni personaggio un linguaggio diverso, figlio del contesto storico, della società e della cultura in cui è inserito. Ma ci sono degli autori che si spingono oltre creando un lessico così particolare da poter essere eletto a lingua privata.
Un linguista, più propriamente, userebbe il termine idioletto ovvero il modo in cui ogni parlante adopera in maniera personale la propria lingua, in altre parole, i modelli linguistici specifici di una persona. L’idioletto è l’impronta digitale di un individuo, ci dice tantissimo su di lui: i regionalismi, i prestiti, le varianti, le parole obsolete, persino gli errori instradano verso un determinato luogo, un particolare periodo di tempo e ci possono persino rivelare titolo di studio ed eventuali esperienze all’estero. Praticamente un curriculum vitae. Le parole sono indizi, tessere di un mosaico che compone la nostra identità.
La letteratura ha sempre custodito questo sapere e l’ha affinato tanto da farne un’arte. Quale miglior modo per uno scrittore di presentare le personalità dei propri personaggi attraverso le parole che scelgono (o non scelgono) di utilizzare? Durante la conversazione romanzesca, se lo scrittore è attento, il lettore riuscirà a individuare la classe sociale di appartenenza, la raffinatezza dei costumi, la sagacia, la modestia o l’ironia dei personaggi. È la lingua che dà vita a individui che altrimenti resterebbero sagome di carta mute.
È proprio la lingua ad aver reso “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg un classico della letteratura. In questo esperimento linguistico e narrativo, la Ginzburg ha sapientemente collegato il vocabolario “privato” dei Levi (famiglia colta torinese di origini ebraiche) alla memoria. All’interno del romanzo, vengono continuamente citate le strane parole (a volte inventate, altre flesse, rimescolate e storpiate), i motti e le filastrocche usate regolarmente dai Levi: le sempiezze, gli sbrodeghezzi, i potacci e così via. Dunque un gruppo ristretto di individui diventa il depositario di queste pietre preziose, dei talismani, incantesimi che ogni volta che vengono pronunciati, evocano specchi magici in cui sono riflesse le immagini della vita familiare, ricordi di momenti ormai passati ma che sono come suggellati da queste parole d’ordine, segrete e incomprensibili a coloro che non ne condividono il codice.
Un altro esempio brillante di caratterizzazione linguistica è quella che fa Jonathan Safran Foer nel suo “Molto forte, incredibilmente vicino”. Il mitico bambino protagonista di questa storia, Oscar, utilizza delle espressioni inconsuete e particolari come “mi sono chiuso nel sacco a pelo di me stesso” oppure “ho le scarpe molto pesanti” o parole molto buffe come “scucciolare” per comunicare con gli altri.
È un bambino molto intelligente e sensibile, chiuso in se stesso, specialmente dopo la morte del padre, avvenuta l’11 Settembre nell’attentato alle torri gemelle, e incapace di comunicare con la madre tutto il suo disagio. Questo raggomitolarsi in se stesso, unito alla capacità di tenere vivo il rapporto con il padre – che organizzava per lui cacce al tesoro fatte di giochi di parole, enigmi e cruciverba – lo porta a esprimersi in maniera anticonvenzioniale rispetto ai suoi coetanei, con parole altisonanti che si mescolano a bizzarrie bambinesche. È la perfetta commistione tra la necessità di scimmiottare il suo intelligentissimo papà e quindi tenerne vivo il ricordo e la sua fantasia fanciullesca.
Sempre Oscar è il protagonista di un altro romanzo pirotecnico a livello linguistico (e non solo): “La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot Diaz. In questa opera di formazione viene raccontata la storia della famiglia Wao, emigrata da Porto Rico agli Stati Uniti d’America. Oscar quindi parla una lingua contaminata: non solo si mescolano nel suo idioletto portoricano e inglese ma anche il gergo nerd che ha assimilato grazie alla sua passione per giochi di ruolo, videogame e altri prodotti della cultura pop. Il risultato è un tenero guazzabuglio linguistico che ci rivela tutte le fragilità e le insicurezze di questo protagonista tutt’altro che convenzionale.
L’uso della lingua, però, non è soltanto un modo per fissare e individuare una personalità ma anche il mezzo per sfuggire completamente a qualsiasi tentativo di definizione. Nabokov in questo è il maestro della fuga. I suoi personaggi, spesso dalle vite miserrime, hanno un’unica via d’uscita: la fantasia. Prendiamo ad esempio Cincinnatus C., l’infelice condannato a morte del surreale romanzo “Invito a una decapitazione”. È un prigioniero, colpevole di essere “opaco” in una società di uomini “trasparenti”, ovvero incapace di condividere i propri sentimenti, “impenetrabile ai raggi altrui”. L’unica libertà di Cincinnatus è quella di coltivare la propria immaginazione attraverso appunto una libertà espressiva che rappresenta un’attestazione della propria individualità, opposta a tutti gli altri, irriducibilmente diversa. Ecco allora la necessità di inventare parole svincolate da qualsiasi regola come upsilamba. Cosa vuol dire upsilamba? Potremmo stare ore a lambiccarci il cervello con una sua possibile interpretazione ma forse il significato più grande è appunto il fatto che qualcuno si è preso la briga (e il rischio) di crearla.