Illustrazione di Chaim Garcia
La sparizione delle lingue continua a interessare la comunità scientifica e motiva i linguisti a dedicare i propri sforzi per salvarle dall’estinzione. Ghil’ad Zuckermann, Professore di Linguistica e Lingue a rischio di Estinzione e membro dell’ Australian Research Council (ARC) presso la University of Adelaide, in Australia, ha trascorso gran parte della sua carriera accademica facendo proprio questo. Nato in Israele, ha portato avanti le sue ricerche e i suoi insegnamenti in giro per tutto il mondo, con pubblicazioni in inglese, ebraico, italiano, yiddish, spagnolo, tedesco, russo, arabo e cinese. Nel corso di questa intervista ci ha parlato del ritorno dell’ebraico, del rinnovamento delle lingue australiane aborigene e della politica volta a mantenere vive lingue e culture.
Nuno Marques:
Come hai iniziato a far rivivere lingue morenti?
Ghil’ad Zuckermann:
La mia risposta è connessa in modo indelebile con l’Australia! Mi sono innamorato a prima vista di questo paese nel 2001, quando sono stato invitato a tenere una conferenza alla University of Sydney. Ai tempi ero un visiting Professor alla National University of Singapore, mentre mi ero preso un periodo sabbatico dalla University of Cambridge in Inghilterra. Ho fatto ritorno a Singapore e poi a Cambridge, ma nel frattempo ho deciso di cercare una posizione accademica in Australia. Quando sono arrivato a Melbourne nel 2004, mi sono chiesto come avrei potuto contribuire alla società australiana che mi stava così gentilmente ospitando.
Confrontandomi con la società australiana, ho identificato due urgenti problematiche: l’estenuante burocrazia e le ingiustizie perpetrate nei confronti delle popolazioni aborigene. Non avevo i mezzi per effettuare una riduzione della burocrazia locale, così ho deciso di convogliare i miei sforzi verso la questione degli aborigeni.
Come sai, le condizioni in cui versano le lingue degli aborigeni australiani sono incresciose. So dell’esistenza di almeno 330 diverse lingue aborigene, ma solo il 4% di queste ultime (13 lingue) godono di “buona salute”, sono cioè, ad esempio, parlate dai bambini fin dalla nascita. Il restante 96% o è diventato quello che chiamo una versione linguistica della “Bella Addormentata” o sono sull’orlo di addormentarsi. Ciò nonostante, quello del recupero delle lingue è un fenomeno che è iniziato in Australia solo in anni recenti.
Io credo nel titolo di lingua nativa, che sarebbe un’estensione del concetto di “titolo di nativo” (il riconoscimento da parte della legge australiana del fatto che le popolazioni indigene hanno diritti e interessi nei confronti delle proprie terre, derivanti dalle loro leggi tradizionali e consuetudini). Essendo io un linguista specializzato nel ritorno dell’ebraico e nella progressiva affermazione del linguaggio israeliano, ho deciso di applicare quanto imparato dal riaffermarsi dell’ebraico al processo di rinnovamento delle lingue aborigene.
Ho diviso la mia strategia in tre parti:
1. Definire un campo di indagine nuovo e interdisciplinare.
Definirlo in Australia significa avere l’opportunità di trasformare alcuni Australiani indigeni in esperti nel recupero delle lingue, rendendolo parte integrante della loro identità culturale. A quel punto saranno in grado di aiutare gli altri in giro per il mondo in materia di recupero della propria lingua. Il recupero della lingua ha il potenziale per diventare una parte importante delle iniziative degli Indigeni, in grado di portare numerosi vantaggi a tutto il resto della comunità. Il recupero della lingua può aiutare a colmare i divari e incoraggia il turismo culturale, arricchendo allo stesso tempo la multiculturale società australiana.
2. Trovare una specifica comunità aborigena che avesse perso la propria lingua a causa di un “linguicidio” e che la volesse rivendicare. Come fa un ebreo israeliano ad aiutare gli aborigeni d’Australia a cancellare le ingiustizie subite da parte dei coloni inglesi e rivendicare la lingua barngarla? Può utilizzare un dizionario scritto nel 1844 da un tedesco luterano! (Si tratta, dunque, di un’impresa palesemente cosmopolita.)
3. Creare un corso incentrato sul recupero della lingua per mettere al sicuro il futuro delle lingue a rischio di estinzione. Il mio corso ha già attratto circa 10.000 persone provenienti da più di 160 paesi.
“Penso che ogni cittadino del mondo debba parlare a livello madrelingua o quanto meno essere molto fluente in almeno quattro lingue diverse.” — Ghil’ad Zuckermann
NM: La tua lingua madre, l’ebraico, può vantare una delle storie di più incredibile successo quando si parla di recupero. Tuttavia, alcuni teorici sostengono che l’ebraico moderno non possa essere considerato una lingua riportata in vita, perché è molto diverso dall’ebraico antico. Qual è la tua posizione all’interno di questo dibattito accademico?
GZ: È una bella domanda. La classificazione genetica di quello che io chiamo “israeliano,” anche noto come “ebraico moderno,” ha di fatto ossessionato gli studiosi fin dall’inizio del ventesimo secolo. La visione tradizionale suggerisce che l’israeliano sia una lingua semitica, vale a dire una forma rinnovata dell’ebraico biblico/mishnaico. La posizione revisionista definisce l’israeliano come una lingua indo-europea: l’Yiddish è il substrato, mentre l’ebraico è il superstrato (che fornisce il vocabolario e una morfologia congelata, fossilizzata e lessicalizzata).
A volte si sostiene che l’ebraico non sia mai morto. È vero che, nel corso della sua storia letteraria, l’ebraico è stato occasionalmente utilizzato come lingua franca. Tuttavia, tra il secondo secolo e il diciannovesimo secolo non è stato la lingua madre di nessuno e sono convinto che l’evoluzione di una lingua letteraria è molto differente da quella di una lingua madre vera e propria.
A differenza delle visioni tradizionaliste e revisioniste, il mio modello ibrido riconosce la continuità storica e linguistica degli elementi semitici e indoeuropei all’interno dell’israeliano. L’israeliano ibrido si basa sia sull’ebraico che sull’yiddish (entrambi contributori primari), accompagnati da una pletora di altri contributori come il russo, il polacco, il tedesco, il giudeo-spagnolo (giudesmo), l’arabo e l’inglese.
Dunque, il termine “israeliano” è di gran lunga più appropriato rispetto al termine “ebraico israeliano” e, soprattutto, dell’espressione “ebraico moderno” o semplicemente “ebraico”, poiché qualsiasi significante che includa il termine “ebraico” dà l’impressione sbagliata, sia sul piano linguistico che sul piano storico, che l’israeliano sia frutto di una evoluzione organica dell’ebraico, mentre invece è sempre stato un linguaggio ibrido.
NM: Come possono le lingue riportate in vita rispondere alle esigenze dettate dalla cultura odierna? Devono prendere in prestito parole da altre lingue o devono coniare nuove parole apposite come fa, ad esempio, l’islandese: un esempio è la parola “sími”, una parola dell’islandese antico, recuperata per evitare l’uso del vocabolo “telefon”?
GZ: L’islandese è un meraviglioso esempio, perché è una delle lingue più orientata al purismo al mondo. La ragione, per come la vedo io, è il danese. A causa di un dominio lungo secoli, l’islandese non ha semplicemente subito l’influenza della lingua danese, ma, in base a quanto riportato tra la metà del diciottesimo secolo e la metà del diciannovesimo secolo, il linguaggio parlato nei porti e a Reykjavik, era un vero e proprio misto di islandese e danese.
Per questo l’islandese fa di tutto per camuffare l’influenza di lingue straniere: oggi come oggi, nello specifico, dell’inglese americano. Una delle tecniche che usano è l’ accoppiamento fono-semantico, in base al quale un vocabolo straniero viene associato a elementi o morfemi pre-esistenti all’interno della lingua islandese, che presentino con esso una somiglianza dal punto di vista fonetico o semantico. Ad esempio, il termine inglese AIDS è entrato a far parte della lingua islandese come eyðni, un accoppiamento fono-semantico con il verbo islandese eyða (“distruggere”) e il suffisso nominale islandese -ni.
Spetta ai madrelingua stessi, piuttosto che ad un’accademia, decidere se vogliono o meno introdurre dei neologismi. Ad esempio, so di Aborigeni d’Australia che non vogliono coniare nuove parole nella propria lingua.
I madrelingua intenzionati a coniare nuove parole, possono mettere in atto tre diverse strategie:
1. importazione: come la parola israeliana אינטואיציה intuítsya per “intuizione”
2. sostituzione: come la parola israeliana מחשב makhshév per “computer
3. accoppiamento fono-semantico: (citato prima) come la parola israeliana דיבוב dibúv per “dubbing” (doppiaggio di un film), che utilizza il termine pre-esistente dibúv “discorso”, foneticamente simile alla parola inglese “dubbing”.
Se ci concentriamo su gusto ed eleganza, io personalmente preferisco gli accoppiamenti fono-semantici, perché mi piacciono sia la causazione multipla che l’armonia fonetica. Ma si tratta di gusto personale.
NM: Le lingue hanno tutte bisogno di uno stato-nazione o di un sistema con una considerevole autonomia politica/territoriale/economica/finanziaria per prosperare?
GZ: Solo le lingue a rischio di estinzione o le lingue riportate in vita richiedono un sistema del genere.
Mi piace il caso della Nuova Zelanda, dove solo il Te Reo Māori (la lingua Māori) e il linguaggio dei segni neozelandese sono lingue ufficiali: l’inglese lo è de facto ma non de jure.
Riguardo alle accademie linguistiche: mi piacciono solo nel caso delle lingue a rischio di estinzione (ad esempio il Māori) o delle lingue riportate in vita (come l’Israeliano fino alla età del ventesimo secolo). Non capisco il senso della prestigiosa e a volte razzista Académie française (che è contro l’Occitano, ad esempio), o dell’ormai datata Hakadémya lalashón haivrít (Accademia della lingua ebraica* האקדמיה ללשון העברית Sia il francese che l’israeliano sono ormai lingue a pieno titolo e i madre lingua non hanno bisogno di qualcuno che vigili su di loro. Le accademie dovrebbero investire il proprio denaro nella creazione di dizionari storici ed etimologici e non in chutzpadikally, ossia nel dire ai madrelingua come devono parlare la propria lingua.
NM: Alcune comunità abbandonano gradualmente la propria lingua, perché ritengono che non abbia più un valore. I linguisti dovrebbero rispettare scelte simili o intervenire per creare condizioni che possano aiutare la lingua a sopravvivere?
GZ: La decisione spetta alla comunità, non ai linguisti! Detto questo, io farei due cose:
1. Fornire ispirazione alle comunità, dimostrando che la diversità linguistica è sintomo di molte cose, non solo di accidentali divisioni storiche. All’interno di una comunità, le lingue sono elementi essenziali per la costruzione dell’identità, dell’autorità, dell’autonomia culturale, della sovranità spirituale e intellettuale, del benessere e della saluta mentale. Come ha detto Russell Hoban una volta: “Il linguaggio è un veicolo archeologico, pieno dei resti di passati morti e vivi, di civiltà e tecnologie perdute e sepolte. La lingua che parliamo è un palinsesto completo della storia e delle vicende umane.”
2. Informare: assicurarsi che le comunità comprendano i vantaggi cognitivi, culturali e in termini di salute del multilinguismo. Purtroppo, molte persone pensano erroneamente che parlare un linguaggio minoritario possa, per i propri figli, compromettere la padronanza del linguaggio più prestigioso e economicamente superiore.
NM: alcune culture sono caratterizzate da dinamiche sociali e visioni del mondo che sono incompatibili con la cultura occidentale e il loro stile di vita è sull’orlo dell’estinzione. Queste comunità dovrebbero adottare politiche di assimilazione “soft”, conservando la propria lingua, ma adottando uno stile di vita occidentale oppure dovrebbero rifiutare qualsiasi forma di assimilazione? Dal tuo punto di vista, quale delle due scelte offrirebbe maggiori probabilità di sopravvivenza alla loro lingua?
GZ: Non credo sia etico spingere qualcuno a rifiutare tutte le forme di assimilazione. Per esempio, non credo nessuno voglia che, nel ventunesimo secolo, si pratichi ancora il cannibalismo. Allo stesso modo, nessuno ha il diritto dal punto di vista morale di suggerire a qualcun altro di non usare l’elettricità che ha a disposizione o di non guardare i film a cui ha accesso.
Ovviamente ciò non significa che si debba diventare Coca-Colonizzati e arrendersi alla “corporativizzazione”, mettendo da parte il proprio meraviglioso patrimonio linguistico. Le lingue sono belle quando sono parlate da persone reali. Ad esempio: amo l’Yiddish per le sue divertenti espressioni psico-ostensive. Amo il gallese, l’islandese, il faroese e il groenlandese per il suono della laterale fricativa alveolare sorda, come nel gallese Lloyd. Adoro l’ungherese per il modo che ha di scrivere forbici che, per una fortunata coincidenza, assomiglia proprio a un paio di forbici: olló. Amo l’israeliano, la mia lingua madre, per le sue imprecazioni in arabo.Credo che ogni cittadino del mondo debba essere un madrelingua in o quanto meno parlare fluentemente almeno quattro lingue:- il proprio linguaggio di origine, ad esempio la lingua aborigena barngarla – la propria lingua nazionale, ad esempio lo Strine (inglese australiano) – una lingua internazionale come l’inglese americano o il mandarino o l’esperanto – una lingua in più, ad esempio l’italiano per godere ancora meglio del bel canto quando si va all’opera. Quindi credo nel concetto di assimilazione “soft”!