Illustrazione di Francesca Crescentini
A che cosa servono gli animali fantastici? Ma a un sacco di cose!
A parte l’indubbia utilità di un drago che t’accende il camino, o di un ippogrifo che sorvola gloriosamente una coda in tangenziale, permettendoti finalmente di arrivare al lavoro in orario, le creature mitologiche ci aiutano, da sempre, a capire meglio chi siamo e il mondo in cui abitiamo.
In ogni tradizione e cultura, infatti, esistono **mostri “metaforici” nati per incarnare vizi, virtù e insegnamenti degni di essere tramandati, mostri “originari” nati per spiegarci da dove diamine viene l’universo (e anche un po’ come funziona e come crediamo che possa finire), e mostri “utili” nati per smistare fortune, sfortune, miracoli o cataclismi che la ragione umana non riesce a gestire altrimenti.
Tutti questi mostri, terrificanti o meravigliosi, hanno un super tratto comune: sono indissolubilmente legati alla dimensione del racconto. E, nonostante le narrazioni facciano del loro meglio per sfidare il tempo, non tutte le creature mitologiche si sono dimostrate abbastanza robuste da lasciare una traccia permanente del loro passaggio.
Secolo dopo secolo, infatti, le bestie più graciline sono state dimenticate e rimpiazzate da mostri più “utili” e versatili, adatti ad accompagnare una particolare cultura in una nuova fase della sua storia. Altri mostri, invece, hanno dimostrato di avere la “pellaccia” un po’ più dura, guadagnandosi il diritto di popolare i sogni e gli incubi degli esseri umani per qualche altra vagonata di decenni.
I mostri più strani, interessanti e “ricchi” – sia dal punto di vista narrativo che concettuale – sono riusciti a spingersi ancora più lontano, finendo per fare il nido (o la tana) nella trama del nostro linguaggio.
Perbacco, sono quasi riuscita a sfornare un’introduzione seria. Roviniamo tutto con gli esempi. Perché dove c’è una creatura mitologica ben pasciuta c’è anche un modo di dire.
“La professoressa di latino è proprio un’arpia! Ma morisse male!”
Per Esiodo e Virgilio, le arpie sono divinità minori che governano il vento. Hanno il corpo di uccello, il volto di donna, i capelli scarmigliati e un appetito impossibile da saziare. Prima di essere messe in fuga dagli Argonauti, le arpie perseguitavano caparbiamente un re di Tracia che, cercando di decifrare l’avvenire degli uomini, aveva offeso il sole. Ogni volta che il re di Tracia si metteva a tavola con la sua corte, le arpie scendevano in picchiata sul banchetto e combinavano un gran casino.
Il significato greco del termine arpie – “quelle che rapiscono e saccheggiano” – si è trasformato, nel tempo, in una delle immagini dispregiative meglio riuscite della storia.
L’insulto moderno, infatti, è estremamente completo: **un’arpia non solo è brutta come la fame, ma è pure cattiva, sgradevole, vendicativa e bisbetica. **E, con ogni probabilità, ha anche la pessima abitudine di rubarvi le mezze penne dal piatto mentre state mangiando in santa pace.
“Uscire con Emily Ratajkowski è una vera chimera.”
La chimera appare per la prima volta nel VI libro dell’Iliade, molto prima del video di Blurred Lines. Dopo diverse vicissitudini morfologiche, il mostro sembra stabilizzarsi sulla seguente conformazione: testa di leone, corpo di capra e coda di serpente.
A seguito di altre esasperanti discussioni letterario-zoologiche, capra e serpente mutano di nuovo, tramutandosi in vere e proprie teste, che spuntano dal dorso o dal sedere del mostro.
La chimera, teoricamente, avrebbe anche la capacità di sputare fuoco… ma, nella confusione generale, nessuno è più riuscito ad individuare la testa fiammeggiante, confinando la chimera nel limbo dei mostri troppo strani per funzionare correttamente.
“Era troppo eterogenea”, scrive Borges. “Il leone, la capra e il serpente (in certi testi il drago) sopportavano male di trovarsi riuniti in una sola bestia. Col tempo, la chimera tende a diventare ‘il chimerico’. L’incoerente forma scompare e la parola resta, per significare l’impossibile.
“Idea falsa, vana immaginazione, è la definizione di chimera che dà oggi il dizionario”.
“Non si può giocare a poker con lui. È una sfinge!”
Ci sono due principali tipologie di sfingi. La sfinge egizia – l’androsfinge – è prevalentemente un elemento architettonico, simbolo del potere e dell’autorità del faraone. Ogni monumento importante, statene certi, era protetto e presidiato da una serissima sfinge di pietra.
La sfinge della mitologia greca, invece, aveva il dono della parola e viveva nei dintorni di Tebe, dove si divertiva a perseguitare i viandanti con indovinelli particolarmente tosti. Chi non riusciva a trovare la soluzione veniva divorato senza troppi complimenti.
Le sfingi egizie, in qualità di statue inanimate, sono impassibili per definizione.
La sfinge greca, un mostro vivo e vegeto, è impassibile per vocazione. La sfinge metaforica, nata dall’incontro tra la statua e la belva, è sinonimo di mistero, dissimulazione, astuzia e impenetrabilità. Capiti quel che capiti, la sfinge non cambierà espressione… e vi fregherà ogni volta con un bluff devastante.
“Non avrò pace finché non sarò riuscito a scacciare le talpe dal mio giardino. Basta remore, è il momento di bombardarle!”
La remora è una faccenda intricata. Per prima cosa, la remora è un pesce della famiglia degli echeneidi. Sulla testa e sulla nuca, la remora ha un piccolo disco cartilaginoso simile a una ventosa, che utilizza per appiccicarsi a pesci più grandi, scogli, battelli e roba galleggiante di vario genere.
E tutto questo è vero. Ma perché mai la remora si chiama così?
Si chiama così perché, in latino, remora vuol dire ostacolo, ritardo, impiccio.
C’è un piccolo pesce, che frequenta gli scogli, chiamato remora. Dicono che attaccandosi alla carena faccia andare le navi più lentamente, e per questo l’hanno chiamato così. Per la stessa ragione, anzi, ha la cattiva fama di servire a fatture amatorie, e di amuleto per rallentare il corso della giustizia in tribunale”, scrive quel mattacchione di Plinio, regalandoci una delle sue impareggiabili generalizzazioni non supportate da alcun dato empirico.
Da Marc’Antonio a Caligola, le cronache latine raccontano di battaglie navali finite a stracci per colpa delle remore, che non temono i venti e funzionano anche meglio delle ancore. Ben presto, le capacità di “rallentamento” della remora si sono estese ai campi più disparati dell’agire umano.
Per dire, oltre ad ostacolare gli iter giudiziari, si pensava che le remore avessero il potere di trattenere i bambini nella pancia della madre fino al momento del parto, trasformando il pesce nel concetto stesso di intoppo, freno e indugio. Visto che di battaglie navali non ne vediamo più tante, la remora di oggi è più uno scrupolo morale che uno sbarramento fisico.
Ma sempre di zavorra si tratta.