Cosa è l’afasia: intervista a Domenico Passafiume, presidente dell’AITA

L’afasia è un disturbo del linguaggio. Comporta fatica a parlare e a capire ciò che viene detto. Il prof. Passafiume, presidente dell’Associazione Italiana Afasici, racconta una realtà molto diffusa ma di cui si parla ancora poco.
Cosa è l'afasia: intervista a Domenico Passafiume, presidente dell'AITA

Domenico Passafiume è professore associato di Psicologia Generale dell’università dell’Aquila e presidente dell’AITA, Associazione Italiana Afasici. Si occupa di neuropsicologia e di riabilitazione dei disturbi cognitivi nei pazienti con lesioni celebrali.

Nel caso di disturbi legati al linguaggio si parla di afasia. I numeri in Italia sono incerti. Ogni anno si stimano 120mila casi di ictus. Di questi, circa un terzo presentano disturbi del linguaggio. È qualcosa di più frequente di malattie come la sclerosi multipla o il morbo di Parkinson.

Ho contattato il professore per conoscere meglio una realtà di cui si parla ancora poco.

Professor Passafiume, di cosa parliamo quando parliamo di afasia?

È un disturbo del linguaggio che deriva da una lesione del cervello, di solito dell’emisfero sinistro, e che comporta una perdita o una diminuzione delle facoltà legate al linguaggio, produzione e comprensione. In base alla gravità della lesione, la persona ha difficoltà a dire ciò che vorrebbe dire e a capire ciò che gli dicono gli altri. Quando ha bisogno di dire che vuole bere o che ha fame, non riesce a farlo, non  riesce più a mettere insieme le sillabe e le singole parti della parola o di tutto il discorso.

Per esempio, non dice “io vado a casa” ma “andare casa”, perde tutta una serie di declinazioni, di coniugazioni, di articoli; oppure dice “io allare au”, inventa le parole, o non capisce che qualcuno gli sta chiedendo se vuole uscire quando si sento chiedere “vuoi uscire?”. E la cosa non riguarda solo la comunicazione verbale ma anche quella scritta. C’è poi una difficoltà nel recupero dei nomi degli oggetti, problemi nel poter continuare a guidare per via della difficoltà nel leggere i cartelli e le indicazioni scritte, o nel continuare a lavorare, nei rapporti con i familiari, in quelli sociali…

È tutta colpa degli ictus?

Certamente c’è un numero elevato di ictus ogni anno e quelli che colpiscono l’emisfero sinistro comportano disturbi del linguaggio. L’afasia però può essere anche conseguenza di un tumore: se mi devono asportare un pezzo di encefalo vicino alla zona del linguaggio, ovviamente, mi causa un problema. Anche un trauma cranico, un incidente in auto o sul lavoro, può causare problemi in quell’area. Quindi non solo ictus. Purtroppo non mancano le patologie che causano questi disturbi, e l’incidenza è elevata.

Per essere ancora più chiari: non si tratta di una malattia…

Esatto, la persona afasica non è malata: ha perso una capacità in seguito a una lesione celebrale. Poi, noi parliamo di afasia ma in realtà dovremmo parlare di afasici, perché ogni paziente ha una sua configurazione – chiamiamola così. Ne ricordo uno che aveva quella che viene definita “slowly progressive aphasia”, cioè un disturbo progressivo che va aggravandosi poco a poco. Ma è un caso particolare che è un principio di demenza.

Cosa può succedere, ad esempio, in un paziente bilingue?

Esistono casi clinici in cui il paziente è ancora in grado di esprimersi nella lingua madre ma non in una seconda lingua che ha sempre frequentato: ci sono delle ipotesi per cui la lingua madre viene, per così dire, trasferita all’emisfero destro, ma sono dati da verificare perché arrivano da casi singoli e non da studi epidemiologici o statisticamente estesi. Ma è proprio il meccanismo che mi fa parlare e capire che viene colpito.

E come si riabilita questo meccanismo?

Attraverso la logopedia e l’intervento di neurologi e neuropsicologi che esaminano le basi del disturbo e cercano di programmare un percorso di recupero delle capacità di comunicazione, verbali e scritte. Ad esempio, posso insegnare al paziente a utilizzare quella che è chiamata “comunicazione alternativa-aumentativa”, cioè fatta di simboli su tavolette, in modo che possa comunque esprimere le sue necessità. Va considerato poi che il non riuscire a esprimersi viene spesso confuso con l’avere poca intelligenza, e l’afasia in genere è ancora piuttosto sottotraccia. Tutto questo porta gli afasici a chiudersi in sé stessi.

L’AITA interviene anche in questo senso?

Sì, spingiamo alla riabilitazione ma soprattutto al reinserimento sociale delle persone. Cerchiamo di fare in modo che gli afasici non si isolino nelle proprie case e che ricomincino a vivere, a uscire, ad avere rapporti con gli altri.

Prima ha accennato i familiari. Che ruolo hanno nel percorso di recupero?

Nei casi più fortunati la riabilitazione con un logopedista è per un’ora al giorno, è quindi il familiare quello che ci passa la maggior parte del tempo e che dovrebbe essere coinvolto nella stimolazione – non la chiamiamo riabilitazione, che è fatta dai professionisti – dell’afasico. Deve prima di tutto capire che non può sostituirsi alla persona ma spingerla a esprimersi in autonomia, creare le condizioni perché possa comunicare da solo, le sue esigenze, ciò che pensa, ciò che prova, i sentimenti, anche se oltre un certo limite non riuscirà a usare il linguaggio.

Può dare qualche spunto di approfondimento, magari partendo dalle storie di singoli pazienti?

Su Youtube si trovano dei video in cui la professoressa Anna Basso [ex-presidente dell’AITA deceduta lo scorso agosto, ndr] racconta una serie di esperienze di pazienti che descrivono come si sentono quando si svegliano. È come se ti svegliassi all’improvviso in un paese in cui non capisci assolutamente nulla di quello che ti viene detto. E non sai che diavolo ti è successo. Hai avuto un ictus, ti svegli all’improvviso dopo la perdita di coscienza e senti delle persone che parlano, ma semplicemente non capisci cosa dicono. Tu cominci a parlare e queste non capiscono e non capendo si rivolgono a qualcun altro, e ti senti scavalcato. Sono delle esperienze veramente drammatiche.

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