Oggi voglio concentrarmi su delle espressioni idiomatiche del pallone, quelle che da sole modificano la narrazione di una partita, costruendo un ponte visivo chiarissimo fra i mondi paralleli che attraversiamo tutti i giorni, anche senza scarpette e parastinchi.
“Cucchiaio” e “biscotto”
Ebbene sì, i protagonisti del pallone spesso fanno un salto fra pentole e stoviglie e non solo a causa di bizzarre abitudini alimentari, come quelle che portano Filippo Inzaghi a mangiare solo Bresaola o Stephen Appiah a presentarsi all’allenamento con nello stomaco solo gelati.
No, qua si parla del calcio giocato.
29 Giugno 2000, Amsterdam. Europei di Calcio per l’Italia di Dino Zoff che disputa la semifinale contro i padroni di casa dalla maglietta arancione. Siamo al termine di una partita incredibile: squadre piantate sullo zero a zero più emozionante che io ricordi.
Al terzo rigore della serie finale, il mondo scopre il vero significato di “cucchiaio”. E a sbatterlo sul tavolo di un intero continente è Francesco Totti. Una conclusione impensabile per una partita di tale importanza, il tocco sotto che trasforma il tiro in una beffa, un pallonetto che lento si insacca al centro della porta.
Da quel giorno, il cucchiaio diventerà l’arma segreta del capitano giallorosso e ogni palombella che nascerà dal suo piede sarà ribattezzata “cucchiaio”.
Per sempre.
Ricordi da un altro campionato europeo di calcio si accoppiano con la seconda parola di questo binomio gastronomico: “biscotto”.
Siamo nel 2004, quando Danimarca e Svezia pareggiano 2 a 2 facendo accomodare elegantemente l’Italia fuori dalla competizione.
Il biscotto è esattamente questo: un patto tacito che permette a due squadre di trarre un beneficio comune a scapito di una terza incomoda. Già, ma come mai si chiama in causa un dolce delizioso e profumato quando ci si riferisce a una situazione poco digeribile?
Bisogna fare riferimento alle corse dei cavalli, spesso specchio di malaffare. Si narra, infatti, che in tempi passati, si cucinassero pietanze truccate per sedare i cavalli scomodi per la vittoria: biscotti, appunto.
“Viva il parroco” e “campanile”
Spesso ci capita di sentire espressioni ecclesiastiche che riportano a quel calcio giocato nei campetti dell’oratorio. Giocare “alla viva il parroco” significa non avere intenzioni costruttive ma solo sbrogliare sommariamente situazioni complicate senza troppi obiettivi, con “calcioni” senza fantasia. Che sia il cortile dell’oratorio o il campionato inglese degli anni Ottanta, non si pensa troppo alla tattica, è tutto un continuo di scorribande offensive personali, spazzate difensive e campanili.
Ecco cos’è un campanile, un “tiraccio” altissimo, che sbroglia la matassa e che spesso arriva a suonare le campane o le finestre del parroco in maniera poco melodiosa.
“Melina” e “Veronica”
Ogni tanto sono i nomi di donna ad entrare direttamente nel gergo “pallonaro”. Ah, ok: non è una questione sessista, esiste anche Aurelio ma non è così famoso come queste due.
Melina: quando una squadra si esprime con un fraseggio stretto e poco rischioso, rendendo praticamente impossibile per gli avversari recuperare il possesso palla.
Solitamente si attua questa tattica per difendere disonorevolmente un risultato o per qualche tipo di protesta contro tifoseria o società. La Melina più sfacciata che io ricordi fu messa in atto in un Sampdoria-Reggiana del 1997. I primi trenta secondi della partita videro i padroni di casa mettere in scena una stucchevole ragnatela di passaggi per protestare contro dei presunti torti arbitrali.
Ah, dimenticavo, sapete chi ha inventato questo riferimento? Gianni Brera, riferendosi al gioco bolognese della melina, consistente nel passarsi di mano in mano il cappello di una sfortunata vittima.
Ed eccoci alla Veronica.
Partiamo dall’inizio: nel calcio, la Veronica è quel particolare dribbling che vede il portatore di palla fare una giravolta su se stesso nel momento in cui, in corsa, fronteggia l’avversario. Secondo nome della Veronica è “roulette marsigliese”, in riferimento a Zinédine Zidane, massimo esponente di questa religione.
Ops, ho detto religione, adesso mi tocca introdurre un secondo argomento ma voglio prima fare un passo avanti.
Il termine Veronica si riferisce anche a un classico movimento della tauromachia. Il toreador che tiene la cappa vicino al corpo e, quando è raggiunto dal toro, la fa sparire con una giravolta, si rende protagonista di una Veronica.
Ma dicevamo della religione: pare che tutto derivi da un episodio apocrifo in cui Gesù Cristo, durante la salita al monte Calvario, viene avvicinato da una donna, Veronica, che gli passa un velo sul viso, così come il toreador fa con il toro. Ma qui stiamo parlando di pallone e il velo è solamente una metafora.
“Catenaccio” e “tridente”
Due termini molto in voga nel calcio richiamano oggetti pesanti e ferrosi e si riferiscono ad attitudini esattamente opposte.
Il catenaccio lo conosciamo molto bene in Italia: si tratta di una tattica estremamente difensiva, che consiste nello schierare una formazione che più che attaccare preferisce blindare la porta con lucchetto e catenaccio. Questa è una di quelle espressioni che tutto il mondo usa in italiano. Stranamente, aggiungerei.
Già, perché a inventare il catenaccio pare sia stato un Austriaco, Karl Rappan, nel campionato svizzero. Ma tutti riconoscono gli italiani come veri e propri “catenacciari”, soprattutto grazie al Parón Nereo Rocco.
La tattica del tridente è completamente opposta. Consiste nello schierare una formazione con tre attaccanti di ruolo che spesso si scambiano le posizioni rendendo ogni azione potenzialmente letale. Il maggiore teorico del tridente è Zdeněk Zeman.
“Tiro telefonato” e “gol alla Palanca”
Qua siamo di fronte a una dicotomia accademica.
Il “tiro telefonato” è quello che viene neutralizzato senza problemi dal portiere a causa della sua lentezza e prevedibilità.
Il “gol alla Palanca”, invece, è la più classica delle sorprese: una realizzazione da calcio d’angolo, dove solitamente si effettuano cross o passaggi corti.
Sì, d’accordo, l’accoppiamento risulta un po’ forzato, ma non potevo far a meno di citare un’espressione che chiama in causa direttamente un mito della mia città, Massimo Palanca, che si espresse principalmente nel Catanzaro e che nella sua carriera realizzò ben 13 reti direttamente dalla bandierina. In Sudamerica ci si riferisce a questa particolare azione di gioco come “gol olimpico”, ma in Italia esiste solo lui, l'”O Rey” di Catanzaro, l’attaccante dai piedi da ballerina, l’uomo del gol da calcio d’angolo.
Alla fine sembra facile parlare di quel rozzo sport che è il pallone, quei vanesi analfabeti che inseguono una palla. No, il calcio non è solamente quello. È anche un vocabolario variegato che ringrazia artisti e onomaturghi regalati alle pedate: Gianni Brera giocoliere della penna, Nicolò Carosio cantastorie colorato, Sandro Ciotti genio della sintassi.
Accendete la radio la domenica pomeriggio, non ne farete più a meno.