CTRL magazine ha mandato in giro per l’Italia una fotografa e cinque scrittori, per raccontare i luoghi d’Italia in cui la lingua madre non è l’italiano. Un viaggio dal Monte Rosa al Salento, che si è trasformato in un libro-reportage, che si può acquistare qui.
Noi della Rivista di Babbel abbiamo deciso di raccontare – insieme alla redazione di CTRL magazine – questi stessi luoghi, attraverso video e dei brevi articoli, che possano introdurvi in questi mondi antichi, nascosti e italiani, che oggi rischiano la scomparsa.
“Soglia messapica”: così gli antichi denominarono il Salento. Un nome che ricorda i “messapi”, una popolazione illirica che qui si stabilì intorno al IX secolo avanti Cristo, dopo aver attraversato il mare Adriatico.
Una terra di orti, ulivi, di piccoli e grandi paesi, di masserie, di coste affollate e di entroterra poco esplorato, di turismo e di storie fuori dal tempo. Una terra dove ancora oggi resiste, in piccole comunità, il grico: una lingua che, come gli antichi messapi, è giunta fin qui dall’altro lato dell’Adriatico.
Un’origine incerta e dibattuta
Chiunque entri in uno degli undici piccoli comuni in cui la lingua grica resiste tutt’oggi, si troverà di fronte un cartello che recita “Kalòs Irtate”, “Benvenuti!”.
Ma perché, in questo lembo d’Italia, si parla questa lingua, che non è un dialetto, che è molto differente dall’italiano, che ricorda il greco antico (o quello moderno)?
Quali sono le origini del grico?
Le ipotesi sono due: alcuni studiosi (tra cui l’illustre filologo tedesco Gerhard Rohlfs) hanno sostenuto che il grico parlato oggi discenda direttamente dalla lingua delle antiche colonie greche (la Magna Grecia, insomma) che nacquero nell’Italia meridionale e in Sicilia già a partire dal VIII-VII secolo avanti Cristo.
Altri (tra cui i linguisti italiani Parlangeli e Morosi) individuano per il grico un’origine più recente, legata all’immigrazione in Puglia di popolazioni provenienti dall’Impero bizantino, come conseguenza dell’avanzata dell’Impero ottomano: un fenomeno che si sarebbe sviluppato, dunque, nel corso del Medioevo.
C’è anche un’ipotesi che – per così dire – accontenta tutti (portata avanti dal filologo Domenico Comparetti): secondo questa linea di pensiero, le popolazioni che durante il Medioevo fuggirono e attraversarono l’Adriatico, decisero d’insediarsi in un luogo, la Grecìa salentina appunto, in cui ancora si parlava un idioma a loro familiare, di cui riconoscevano la comune radice.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Una lingua di canti e poesie
Si scrive “grico”, con la c? Oppure con la k, “griko”? O, come fa Wikipedia, è meglio utilizzare la dizione “minoranza linguistica greca d’Italia”?
Forse non è così importante giungere a una verità univoca, soprattutto se si pensa che il grico, più che nella lingua scritta, sopravvive e prospera soprattutto nelle poesie e nelle canzoni trasmesse oralmente di generazione in generazione, di piazza in piazza e di portone in portone.
Questi canti, poi, raggiungono uno dei palcoscenici più importanti d’Italia: le note e le parole di “Kali nitta”, infatti, risuonano ogni anno durante la “Notte della Taranta”, un festival che si svolge a Melpignano (uno dei paesi della Grecià salentina), e che raccoglie decine di migliaia di persone tra il pubblico.
“Kali nitta” significa “buona notte”, in grico, ed è una canzone che affonda le sue origini nel folclore popolare di queste terre.
Com’è dolce questa notte,
com’è bella e io non dormo pensando a te
e qui sotto la tua finestra, amore mio
del mio cuore ti apro la pena.
Queste sono i versi con cui inizia la prima strofa.
La canzone, insieme a molte altre, è una delle testimonianze vive delle tradizioni di un popolo accogliente, che fu, secoli addietro, a sua volta accolto.
Quando risuona – sul palco prestigioso e mediatico della Notte della Taranta o in una piazza piccola e raccolta – porta con sé le storie di quei cantori che, fino agli anni Ottanta del Novecento, percorrevano le strade di questa parte del Salento, accompagnati da fisarmonicisti, per far risuonare i canti religiosi e profani, sempre in grico, tra paesi e campagne.
Anche in Calabria resiste (a fatica)
Sono pochi quelli che, ancora oggi, parlano il grico in Salento, e ne tramandano le tradizioni.
Secondo alcune stime, sono circa diecimila e quasi tutti in età avanzata. Ancora meno – forse solo 500 – sono quelli che, ancora più a Sud, nei territori della Bovesia calabrese, parlano oggi il grecanico che poi, in fondo, è solo un altro modo per definire il grico (o griko). Le differenze linguistiche sono molte ma la radice è indubitabilmente la stessa: quella che affonda sulla sponda greca dell’Adriatico.
Le ultime persone che parlano grico sono pochissime ma resistenti, tanto che un gruppo di giovani che abitano questi borghi arroccati sull’Aspromonte ha deciso di lanciare una campagna di crowdfunding per provare a salvare questa lingua, che è la loro, che è quella dei loro padri ed è una ricchezza per tutti gli italiani.
Un ringraziamento a Manuela Tommasi e all’Associazione Mana Grika di Calimera (LE) per le traduzioni che appaiono nei sottotitoli del video.