CTRL magazine ha mandato in giro per l’Italia una fotografa e cinque scrittori, per raccontare i luoghi d’Italia in cui la lingua madre non è l’italiano. Un viaggio dal Monte Rosa al Salento, che si è trasformato in un libro-reportage, che si può acquistare qui.
Noi della Rivista di Babbel abbiamo deciso di raccontare – insieme alla redazione di CTRL magazine – questi stessi luoghi, attraverso video e dei brevi articoli, che possano introdurvi in questi mondi antichi, nascosti e italiani, che oggi rischiano la scomparsa.
Homines dicti walser
Il termine “walser” apparve per la prima volta a Galtür – una piccola colonia del Tirolo – su una pergamena del 1319 in cui il giudice aveva registrato le novali (cioè i “terreni coltivati”) degli “Homines dicti Walser de Cultaur advenientes”.
La storia di questo popolo e della sua lingua tuttavia risale al secolo prima quando i primi walser si mossero dal Canton Vallese svizzero (da cui deriva il loro nome) verso le Alpi italiane alla ricerca di nuove terre da colonizzare, a volte per loro iniziativa ma più spesso perché chiamati da monasteri e feudatari che concedevano loro terre da bonificare e libertà in cambio del pagamento di una rendita. Le altitudini a cui questo avveniva erano ritenute inaccessibili per le estreme condizioni ambientali e perché non adatte alla coltivazione e alla sopravvivenza degli uomini.
Nel lungo cammino transalpino, assieme a pochi manufatti in legno, questo popolo di pastori portò con sé la propria lingua: il walser, il tedesco “alto-alemanno”, in una delle sue espressioni più arcaiche. E lì, attorno ai pendii del Monte Rosa, questa lingua è rimasta intatta fino ad oggi.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
La lingua delle montagne
I walser s’insediarono in un territorio che copre l’area che va dalla Savoia al Tirolo, formando un insieme di isole linguistiche che, pur essendo nate dalla stessa matrice, si differenziano sensibilmente tra loro.
A causa delle contaminazioni con le lingue svizzere, il dialetto piemontese, il franco-provenzale e l’italiano, il walser di Macugnaga – il titsch – è diverso da quello di Alagna – il titzschu – e da quello di Rimella – il tittschu.
Sempre di Walser però si tratta: la lingua è legata indissolubilmente alla vita silvo-pastorale e su questa si modella, dado vita a verbi che non trovano corrispondenza in italiano, come “andare a fare funghi” o “andare a tagliare la legna”.
Un futuro incerto
Nel corso dei secoli, i walser hanno saputo conservare i caratteri salienti della loro cultura transalpina, con i suoi ritmi, i canti, il timore e la riverenza verso gli eventi naturali, le sue usanze e i suoi rituali pagani.
A partire dalla fine dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, però, la lingua walser è rapidamente declinata nel suo uso abituale, osteggiata dall’influenza fascista. L’indebolimento è continuato anche a causa dell’introduzione delle cerimonie liturgiche in italiano, dello spopolamento incessante che ha portato i giovani scendere a valle in cerca di lavoro e della quasi esclusiva oralità della lingua.
Ora, solo gli anziani parlano walser e sono le ultime risorse e reliquie viventi che portano con sé tracce di una memoria linguistica che rischia di sparire definitivamente in pochi anni. Attualmente in Italia ci sono comunità walser in Val d’Ossola, in Valsesia e in Valle d’Aosta, e ognuna di queste fa riferimento a un proprio Sportello Linguistico che a fatica porta avanti attività di conservazione della lingua.
Per le traduzioni dei sottotitoli, ringraziamo Paola Borla, Daniela Valsesia, Lino Bettoli e Roberto Marone.