La lingua che parliamo può influenzare il modo in cui vediamo il mondo?

Storia dell’ascesa e del tramonto dell’ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui lingue diverse creano diverse visioni del mondo.
Un binocolo per vedere un paesaggio

Iniziamo con una famosa citazione di Ludwig Wittgenstein che probabilmente vi risulterà familiare: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Sebbene leggermente decontestualizzata, questa frase riassume perfettamente l’idea, spesso analizzata dalla linguistica, che la lingua madre dei parlanti possa influenzarne la percezione del mondo. Questo concetto, che è alla base dell’ipotesi Sapir-Whorf (di cui parleremo più dettagliatamente di seguito), è stato oggetto di studio e analisi per lungo tempo, ed è una teoria che continua ad affascinare ancora oggi i linguisti e gli studiosi di altre discipline, perché l’idea che la lingua influisca sul nostro modo di percepire il mondo è estremamente interessante e, non da ultimo, ci aiuterebbe anche a spiegare perché le persone che parlano altre lingue ci sembrano così diverse da noi.

Non sorprende quindi che questa idea abbia dato vita a discussioni molto accese tra i linguisti, e il fatto che si tratti di un concetto molto vago e difficile da quantificare rappresenta uno dei problemi centrali nella valutazione dell’influenza esercitata dalla lingua sul modo in cui percepiamo il mondo. Cosa significa infatti “percepire, vedere” il mondo? Come possiamo misurare il modo in cui le persone percepiscono la realtà?

Per trovare una risposta, faremo un viaggio nel passato ed esamineremo brevemente diversi approcci con cui i ricercatori hanno affrontato questo problema nel corso del Novecento. Nel nostro viaggio porteremo con noi due libri che ci serviranno da guida: Through The Language Glass: Why The World Looks Different In Other Languages (titolo che potremmo tradurre come “Attraverso la lente del linguaggio: perché il mondo sembra diverso in altre lingue”), di Guy Deutscher e The Language Hoax: Why The World Looks The Same In Any Language (ossia “La bufala del linguaggio: perché il mondo sembra lo stesso in qualsiasi lingua”) di John McWhorter.

Leggendo i titoli, potreste concludere che questi due studiosi siano in contrapposizione tra loro ma, come scoprirete leggendo questo articolo, in realtà sono d’accordo su quasi tutto. Prima di iniziare, però, vogliamo introdurre brevemente due pensatori dell’inizio del ventesimo secolo che hanno studiato a fondo l’idea di lingua e visione del mondo: Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf.

L’ascesa e la caduta dell’ipotesi Sapir-Whorf

Se la questione se le lingue possano influenzare la percezione del mondo ha mai catturato il vostro interesse, vi sarete certamente imbattuti nella tesi sviluppata nel ventesimo secolo e nota come l’ipotesi Sapir-Whorf, conosciuta anche come relatività linguistica o whorfianismo.

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf, è indubbio che le lingue esercitino una forte influenza sul modo di pensare e di percepire la realtà dei parlanti. Sebbene questa tesi, elaborata all’inizio del Novecento, sia stata presa in considerazione e analizzata anche in passato, l’idea divenne straordinariamente popolare quando si iniziarono a studiare le lingue amerindie, ossia le lingue parlate dai nativi americani.

Il linguista Edward Sapir iniziò a vagliare l’idea della relatività linguistica nel 1931, quando stava studiando la lingua dei Nootka, una tribù indiana stanziata lungo la costa nord-occidentale del Canada. Durante la sua ricerca, Sapir osservò come i Nootka usassero i verbi in modo diverso dalle altre lingue.

Anziché descrivere un sasso che cade con la perifrasi “the stone falls”, questa lingua si serve infatti di una forma verbale speciale, che consiste di due elementi principali: il primo indica in generale il movimento o la posizione della pietra o di un oggetto simile alla pietra, mentre il secondo fa riferimento alla direzione verso il basso.

Quindi, per rendere questa frase nella lingua nootka, possiamo ipotizzare l’esistenza di un verbo intransitivo “to stone” (che potremmo rendere come “pietreggiare”), e tradurla quindi come “[it] stones down” (pietreggia giù). Per Sapir, questo esempio dimostrava che i Nootka avevano una percezione differente di azioni e oggetti, anche se, secondo i linguisti contemporanei, in realtà non si tratta di una costruzione così singolare.

Inoltre, sebbene la lingua nootka utilizzi una forma verbale originale, non significa che i parlanti Nootka considerino le pietre in modo diverso da qualsiasi altra persona. Ma se Sapir non fece che immergere la punta del piede nel mare della relatività linguistica, il suo studente, Benjamin Lee Whorf, ci si tuffò completamente.

Per argomentare la sua teoria, Whorf analizzò la lingua degli Hopi, una tribù nativa americana che vive nell’Arizona nord-orientale. Dopo anni passati a studiare questo popolo, Whorf concluse che “la lingua hopi non contiene parole, forme grammaticali, costruzioni o espressioni che si riferiscano direttamente a ciò che noi chiamiamo ‘tempo’”.

Questa tesi si diffuse in maniera capillare negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, dopo la pubblicazione postuma dei suoi studi, e Whorf divenne famoso per aver scoperto una popolazione che non conosceva il concetto di “tempo”. Purtroppo, però, l’analisi di Whorf della lingua hopi era completamente sbagliata.

Infatti, il linguista Ekkehart Malotki confutò completamente le sue teorie nel libro Hopi Time, nel quale descrive in modo estremamente dettagliato le parole e le espressioni hopi per riferirsi al tempo. Sembra proprio che Whorf si sia entusiasmato un po’ troppo per provare la sua tesi.

Ragazze

Un’immagine del 1922 che ritrae delle giovani donne Hopi. Benjamin Lee Whorf basò la sua tesi sull’idea che questo popolo non avesse una nozione di “tempo”, tuttavia la sua teoria si rivelò completamente errata e fu successivamente confutata da altri studiosi.

Il neo-whorfianismo e altre teorie sui colori

Nel corso del Novecento, l’ipotesi di Sapir-Whorf è stata rigettata da tutti i linguisti, e la maggior parte degli studiosi più affermati evitano persino di nominarla nelle loro opere. Senza dubbio l’ipotesi, così come era intesa nel ventesimo secolo, si è dimostrata fallace eppure, nella sua opera Through The Language Glass, Deutscher cerca di riabilitarla almeno in parte, e per farlo prende in esame le ricerche dei linguisti neo-whorfiani.

Ma, per dimostrare come le lingue possono influire sul nostro modo di vedere e concepire il mondo, Deutscher abbandona completamente l’ipotesi Sapir-Whorf e adotta un’idea più precisa, che egli definisce il principio Boas-Jakobson. Secondo questa teoria, che prende il nome dai linguisti Franz Boas e Roman Jakobson, secondo le parole dello stesso Jakobson, “le lingue differiscono essenzialmente tra loro per ciò che devono esprimere e non per ciò che possono esprimere”.

Per Whorf, la questione da risolvere era “che cosa sono in grado di produrre le diverse lingue?”, e riferendosi alla lingua hopi, egli sosteneva appunto che non era in grado di produrre idee che facessero riferimento alla nozione di “tempo”.

Deutscher, d’altra parte, affronta una questione completamente diversa, ossia “quali informazioni è necessario trasmettere quando si parla una determinata lingua?” Per riassumere, i neo-whorfiani non analizzano le lingue alla ricerca di concetti che sembrano essere assenti ma, al contrario, esaminano proprio gli elementi che sono parte integrante di una lingua.

Prendiamo per esempio i generi grammaticali. Questi vengono assegnati in modo arbitrario e convenzionale in alcune lingue, come il tedesco, che ne ha tre (die, der e das) e lo spagnolo, che ne ha due (los e las), proprio come l’italiano. Tuttavia, questa non è una caratteristica comune a tutte le lingue. In inglese, per esempio, l’attribuzione di un genere ai sostantivi viene espressa grammaticalmente solo nei pronomi, come “he”, lui, e “she”, lei.

Pertanto, queste lingue presentano differenze fondamentali nella grammatica, perché per riferirsi agli oggetti inanimati lo spagnolo, l’italiano e il tedesco devono includere il genere, mentre in inglese non è necessario farlo. Tuttavia, il fatto che molte lingue abbiano i generi grammaticali e altre no può davvero influenzare la visione del mondo delle persone? Secondo quanto indicano diversi studi, la risposta è sì.

Le psicologhe Lera Boroditsky e Lauren Schmidt hanno condotto un esperimento in cui chiedevano ai partecipanti, dei parlanti madrelingua tedeschi e spagnoli, di descrivere diversi oggetti inanimati in inglese. Per le parole che sono maschili in una lingua e femminili nell’altra, le due studiose hanno notato una disparità interessante nelle risposte fornite.

Prendiamo per esempio il termine “bridge”, ossia ponte, che è femminile in tedesco (die Brücke) e maschile in spagnolo (el puente). Per descrivere i ponti, gli spagnoli tendevano a scegliere aggettivi che tradizionalmente appartengono alla sfera maschile, come “dangerous” (pericoloso) e “strong” (forte, robusto), mentre i tedeschi utilizzavano per lo più aggettivi che nella tradizione fanno parte della sfera femminile, come “slender” e “beautiful”, ossia slanciati e belli.

Possiamo concludere quindi che, sebbene il genere grammaticale in queste due lingue apparentemente non abbia alcuna influenza sul significato delle parole, nei parlanti sembra verificarsi un fenomeno associativo a livello inconscio. Ma poiché questo esempio sui generi grammaticali, per quanto interessante, può risultare un po’ ambiguo, prendiamo in esame un altro caso analizzato nel dettaglio da Deutsche, cioè i colori. Per svariate ragioni, i colori sono un argomento trattato ad nauseam nel mondo della linguistica.

Uno dei fatti che viene spesso citato è che in russo ci sono due parole per indicare il colore blu: siniy (blu scuro) e goluboy (blu chiaro). Questo dato però non è poi così sorprendente: in fondo, se ci pensiamo, anche in italiano abbiamo due termini per indicare il colore rosso (“rosso” e “rosa”) e la cosa non ha mai sconvolto nessuno.

Tuttavia, queste due sfumature di blu della lingua russa sono state oggetto di uno studio, realizzato nel 2007 da un team di linguisti, nel quale si dimostra che i nomi dei colori importano eccome. La struttura di questo esperimento sui “colori russi” era molto semplice: al gruppo di partecipanti, formato da parlanti madrelingua russi e inglesi, si chiedeva di osservare un quadrato di una tonalità di blu e quindi scegliere tra due quadrati più piccoli quello con la stessa tonalità.

I ricercatori misurarono la velocità con cui i partecipanti sceglievano la risposta corretta. La conclusione di base a cui arrivò l’esperimento fu che quanto più diverse erano le due opzioni, tanto più velocemente le persone erano in grado di rispondere.

La scoperta più importante, tuttavia, fu che i russi erano in grado di differenziare più facilmente i due colori quando la tonalità era molto simile sia al siniy che al goluboy. Inoltre, i partecipanti russi riuscivano a scegliere la risposta corretta molto più velocemente se una delle opzioni era siniy” e l’altra era “goluboy” rispetto a quando dovevano differenziare due sfumature dello stesso colore. I risultati per i parlanti inglesi invece non evidenziarono queste differenze, quindi il risultato dell’esperimento sembra confermare l’idea che i colori vengano effettivamente distinti in base al nome, concludendo che la lingua influenza il processo decisionale.

Altri studi sui colori hanno mostrato che le persone, quando devono differenziare colori simili tra loro, accedono alle parti del cervello che controllano il linguaggio. Secondo Deutscher, questa ricerca non è che l’inizio di un’indagine più approfondita sulla lingua e sulla percezione ed esorta gli scienziati a superare gli errori del Whorfianismo, per iniziare a studiare in modo critico il modo in cui linguaggio e cervello interagiscono tra loro. Dopo tutto, le lingue parlate in tutto il mondo sono oltre 6.000 e potrebbero aiutare a scoprire molti segreti della condizione umana.

Paesaggio

Quando guardate un arcobaleno quanti colori vedete? Se siete italiani, probabilmente vi avranno detto che sono sette. Il numero, tuttavia, differisce a seconda delle lingue, perché i colori non sono divisi da linee e includono diverse sfumature.

Il grido di protesta di McWhorter

Nel suo libro The Language Hoax, McWhorter non accusa Deutscher di sbagliarsi o di interpretare in modo completamente errato i fatti, anzi, al contrario usa gli stessi esperimenti dei neo-whorfiani descritti dal collega.

McWhorter, infatti, non è d’accordo unicamente con la conclusione che gli esperimenti siano in qualche modo significativi in modo eclatante e la sua critica maggiore è che il whorfianismo sia stato usato in modo sensazionalistico da parte dei media. McWhorter contesta Deutscher soprattutto per una serie di scritti, oltre a Through the Language Glass, nei quali lo studioso sembra sopravvalutare l’influenza del linguaggio sui pensieri delle persone.

A McWhorter inoltre non piace il sottotitolo dell’opera di Deutscher, “Why The World Looks Different In Other Languages” (Perché il mondo sembra diverso nelle altre lingue), perché chiunque si limiti a leggere la copertina potrebbe concludere che le lingue possono cambiare in modo determinante la percezione della realtà delle persone.

McWhorter ammette che il linguaggio può avere alcuni degli effetti descritti da Sapir-Whorf sul cervello, ma sostiene che sono marginali. Nel caso dello studio sulle due sfumature di blu del russo descritto sopra, per esempio, lo studioso sottolinea come la “differenza significativa” nel tempo di risposta dei partecipanti fosse solo di un decimo di secondo, mettendo in discussione l’idea che un decimo di secondo di ritardo nello scegliere un colore possa cambiare la visione del mondo delle persone.

McWhorter non vuole separare completamente lo studio della lingua dalla cultura e, nel suo libro, si limita ad affrontare una domanda molto specifica: “può la struttura di una lingua, in funzione di ciò che fa con le parole e di come le mette insieme, contribuire a formare il pensiero, in misura tale da poter essere definita, a ragion di logica, una “visione del mondo”, ossia una prospettiva della vita nettamente differente da quella di una persona che parla un’altra lingua con parole e strutture grammaticali differenti?”

Come potete immaginare dal suo modo appassionato di porsi la questione, McWhorter è piuttosto pignolo, ma ha buona ragione per esserlo. The Language Hoax è il manifesto (è lo stesso McWhorter a definirlo così in più occasioni) di uno studioso stanco di sentir dire che le lingue possono influenzare drasticamente menti e culture.

È lui stesso a spiegare perché questo argomento sia così importante per lui, e la ragione è che la tesi Sapir-Whorf può essere utilizzata, e lo è stata, con scopi discriminatori. Fa anche notare come Deutscher porti come esempio persone che sono migliori nello svolgere determinate attività per via della loro lingua, ma non descrive invece nessun caso di persone che siano peggiori per lo stesso motivo. Se una lingua può rendere qualcuno migliore in qualcosa, se ne deduce infatti che altri idiomi devono per forza renderlo peggiore.

Lo scopo di McWhorter, insomma, è quello di metterci in guardia da un terreno estremamente pericoloso, per cui certe lingue vengono considerate “superiori” rispetto ad altre.

L’ipotesi Sapir-Whorf: una questione irrisolta

Ad oggi gli studiosi non hanno ancora fornito una risposta definitiva alla questione posta dall’ipotesi Sapir-Whorf, se le lingue influiscano o meno sulla visione del mondo delle persone, e la ragione è molto semplice: non esiste. Se però vogliamo riassumere tutta la questione limitandoci a fornire due opzioni (con una zona d’ombra nel mezzo), potete scegliere da che parte stare:

  1. Siete d’accordo con Guy Deutscher e pensate che la ricerca dimostri in modo definitivo che le lingue possono influenzare la nostra percezione del mondo. Al momento i linguisti hanno fornito solo delle prove minori, ma se vi state semplicemente chiedendo se il linguaggio possa influenzare o meno il modo di percepire il mondo, i dati empirici dimostrano che può farlo.
  2. Concordate con John McWhorter, e pur riconoscendo i risultati della ricerca, per voi i casi esposti sono rari e non abbastanza significativi da poter essere considerati come determinanti per definire una visione del mondo.

In qualsiasi caso, sia sostenitori che i detrattori dell’ipotesi Sapir-Whorf espongono casi estremamente interessanti che non si escludono a vicenda. La conclusione più importante è che dovreste essere scettici verso qualsiasi tesi che sostiene che alcune lingue possono fare cose che altre non possono, soprattutto se è riportata da un mezzo di informazione che non sia specializzato nel campo delle scienze.

La capacità di parlare una lingua complessa è una dote condivisa da tutti gli esseri umani. Per quanto l’idea che una lingua possa influenzare il modo di pensare sia allettante, potrebbe non essere affatto così. Per fortuna, è altrettanto emozionante imparare che tutte le lingue, nella loro essenza, sono identiche e che, in definitiva, tutti non facciamo che parlare delle varianti dello stesso farfuglio con cui comunichiamo da neonati.

Vuoi imparare una nuova lingua?
Prova Babbel
Condividi: