CTRL magazine ha mandato in giro per l’Italia una fotografa e cinque scrittori, per raccontare i luoghi d’Italia in cui la lingua madre non è l’italiano. Un viaggio dal Monte Rosa al Salento, che si è trasformato in un libro-reportage, che si può acquistare qui.
Noi della Rivista di Babbel abbiamo deciso di raccontare – insieme alla redazione di CTRL magazine – questi stessi luoghi, attraverso video e dei brevi articoli, che possano introdurvi in questi mondi antichi, nascosti e italiani, che oggi rischiano la scomparsa.
L’occitano è una lingua senza patria. O meglio, è una lingua che una patria ce l’ha da quasi un millennio, ma non è mai esistita burocraticamente o sulle carte geografiche: si chiama Occitania e si estende dai Pirenei – al confine tra Francia e Spagna – fino alle Alpi italiane.
Il Medioevo: l’occitano come lingua della letteratura
È il pomeriggio del 12 aprile 1300, sono circa le 4 del pomeriggio. Dante Alighieri passeggia per il Purgatorio. Nota un’anima avvolta nel fuoco e la riconosce: è l’anima del suo mito, del suo modello letterario, di Arnaut Daniel, raffinatissimo poeta delle corti provenzali. Quelle corti in cui, intorno all’anno Mille, fiorì la prima grande letteratura in una lingua europea: l’occitano, appunto.
E il poeta fiorentino – emozionatissimo – inizia a conversare con Arnaut, nella sua lingua.
La lingua d’oc, nel Medioevo, era la lingua della cultura più alta, della poesia d’amore dei trovatori che animavano le splendide corti della Francia meridionale.
Fu un’ascesa fulminea, quella di questa civiltà letteraria che iniziò intorno all’anno Mille e terminò a metà del 1200, bruscamente e con violenza, a causa di una guerra confusa, lunga e sanguinosa: la “Crociata contro gli albigesi”.
La lingua occitana, dopo quegli anni di sangue, rischiò di scomparire per sempre. Ma così non accadde: resistette, a fatica, in luoghi minori, marginali, spesso dentro le mura domestiche.
È sopravvissuta fino ad oggi.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Il Novecento: l’occitano come lingua degli emarginati
Fino all’inizio degli anni Sessanta, quasi tutti – nelle valli delle province di Torino e di Cuneo al confine con la Francia – parlavano occitano. Ma non lo sapevano.
Loro dicevano – molto più semplicemente – di parlare “a loro modo”. Uno strano dialetto per l’orecchio dei piemontesi, usato dalla gente di montagna, nelle stalle e nei pascoli. Un idioma di cui vergognarsi, la lingua di chi veniva bollato come rozzo e arretrato, da estirpare nelle aule di scuola.
Fino al 1963.
A un certo punto, dall’altra parte delle Alpi, arrivò un intellettuale: si chiamava François Fontan, era un dissidente politico, che – in periodo di decolonizzazione in Asia e in Africa – si batteva per l’autonomia dell’Occitania francese, contro il governo centrale di Parigi.
Quell’anno, Fontan si trasferì in esilio volontario da Nizza a Frassino, un piccolo paese della Val Varaita in provincia di Cuneo. Iniziò a girare per le valli, di casa in casa, per le piazze, fuori dalle chiese, a raccontare alla gente umile di montagna, che loro – proprio loro – erano gli ultimi eredi di una grande civiltà che ebbe origine oltralpe. Raccontò loro che la lingua che parlavano era l’occitano, la prima vera grande lingua letteraria d’Europa.
Non un idioma di cui vergognarsi: l’esatto opposto.
Durante le sue peregrinazioni, Fontan incontrò anche il più grande poeta dialettale di quelle valli, Antonio Bodrero, detto “Barba Toni”. Con lui fondò il MAO, il Movimento Autonomista Occitano, con l’obiettivo di ottenere una pacifica autonomia di questi territori dallo Stato Italiano, sul modello della Valle d’Aosta.
Quello che resta: l’occitano oggi
Il Movimento Autonomista Occitano ha avuto breve vita e scarso successo. Le lotte politiche sono finite ma sono rimaste, più forti di prima, le lotte culturali per far conoscere al mondo l’esistenza di questa lingua minoritaria, tutelata dall’articolo 6 della Costituzione della Repubblica Italiana.
In ogni locanda, in ogni bar e albergo delle valli occitane svetta la croce gialla su fondo rosso della bandiera “nazionale”.
Le danze occitane, come la Curenta, attirano l’attenzione di un numero sempre maggiore di persone. Così come i canti, accompagnati dalla fisarmonica, dal violino e dalla ghironda.
Molte famiglie hanno ricominciato a parlare occitano in casa con i loro bambini. A scuola si fanno corsi di lingua. Online e su carta si compilano dizionari per cercare di dare nuova linfa a questa lingua dalla storia così nobile e antica, che ha avuto – nei secoli – un cammino insolito e singolare. Un cammino che continua ancora oggi.
Per le traduzioni dei sottotitoli, ringraziamo Andrea Fantino e Fredo Valla.