Accento e apostrofo in italiano, qual è la differenza?

E soprattutto la risposta alla domanda fondamentale: perché si scrive “qual è” e non “qual’è”?

Oggi abbiamo deciso di farvi una sorpresa e di parlare dei più comuni errori in italiano: quelli che riguardano l’accento e l’apostrofo!

Solitamente, quando esplorate questo magazine, vi trovate di fronte ad articoli riguardanti i trucchi per imparare lo spagnolo, la lista dei modi di dire francesi o le differenze tra l’inglese americano e britannico.

Non siate precipitosi: se state pensando che a voi non servano le dritte grammaticali nella vostra lingua madre, beh, vi offendete se vi dico che non avete sempre ragione? Siamo tutti colpevoli: sbagliamo e a volte neanche ce ne accorgiamo.

A me la grammatica piace, a scuola esultavo di fronte ai compiti di analisi logica e – forse grazie a una mamma maestra – recitavo con orgoglio tutte le filastrocche per ricordarmi le regole ortografiche. “Qui, quo, qua, l’accento non ci va”. Vi suona familiare?

Bene. Malauguratamente e forse a causa dei social network, degli sms e della fretta con cui ormai viviamo le nostre giornate, spesso e volentieri scriviamo e parliamo con una grammatica sciatta, un lessico povero e non controlliamo se bisogna mettere la “i” in quel plurale o se l’accento che abbiamo messo non sarà piuttosto un apostrofo.

Cosa vi sto chiedendo, dopotutto? Un’ortografia precisa, un lessico ricercato, un’attenzione particolare per la nostra tanto amata lingua… Che ci vuole? Non vi chiedo mica di iniziare improvvisamente a parlare utilizzando solo parole ormai vintage!

Se siete con me, continuate a leggere: ho fatto una breve lista degli errori in italiano più comuni. Se anche voi siete caduti nella tentazione di non controllare prima di scrivere (o parlare), ora non avete più scuse!

Illustrazione con vari monumenti delle città italiane

La differenza tra accento e apostrofo

Prima di tutto, va detto che l’accento è un segno grafico che viene utilizzato per accentuare (appunto) ossia pronunciare in maniera più marcata una sillaba e va sempre messo sopra una vocale. L’accento è opzionale se non si tratta dell’ultima sillaba ma è consigliato usarlo se la stessa parola con accenti diversi assume due significati diversi (es. sùbito nel senso di immediatamente vs subìto nel senso di participio passato del verbo “subire”). Se la sillaba da accentare è l’ultima, allora l’accento è obbligatorio.

L’apostrofo, invece, va messo tra una parola e l’altra e sostituisce una vocale che può essere omessa per rendere più fluida la pronuncia, per esempio quando diciamo “un’arancia” invece di “una arancia”.

L’accento dimenticato

Il minuscolo segno di interpunzione che appare alla fine di alcune parole, indovinate un po’, non è una scelta stilistica o un vezzo calligrafico. Se è lì, un motivo ci sarà, no?

Come potremmo, senza accento, distinguere parole come quelle che seguono?

(terza persona singolare dell’infinito presente del verbo dare) e da (preposizione semplice)

(avverbio di luogo) e li (pronome personale complemento)

(congiunzione correlativa) e ne (particella pronominale)

La guerra tra accento e apostrofo

Ho parlato di guerra perché sembra che tra questi due segni di interpunzione proprio non si riesca a trovare un accordo. Perché è così difficile distinguerli e perché tante persone credono che sia la stessa cosa mettere l’uno o l’altro?

Provate un po’ a leggere queste tre parole e ditemi che cosa ne pensate:

Di, dì, di’.

Adesso spiegatemi perché sono scritte in modo diverso se la pronuncia è la stessa. Esatto: proprio per distinguerle. Di conseguenza, scrivere (con l’accento) intendendo la seconda persona singolare dell’imperativo del verbo dire, è sbagliato! Così come usare l’apostrofo (di’) per pigrizia – magari volendo utilizzare un sinonimo di giorno – perché non sapete come accentare le lettere sulla tastiera del computer o dello smartphone.

Mi è capitato, più di qualche volta, di leggere libri (libri corretti, pubblicati, messi in vendita) in cui al posto degli accenti venivano usati gli apostrofi. Orrori tipo E’, per intenderci.

E poi, quando invece l’apostrofo servirebbe (perché, vi ricordate la regoletta, vero? L’apostrofo è la “lacrima” lasciata dalle lettere che scompaiono…) ci trovo un accento o, ancor peggio, niente!

Cose come un pò, un anatra, un occhiata, mi dispiace, ma non sono accettabili. Mi viene il mal di testa persino a scriverle.

Per ricapitolare:

1) Accento e apostrofo sono diversi.

L’accento dà l’intonazione alla parole e, in alcuni casi (come nel punto precedente), ci aiuta a distinguere vocaboli che vengono pronunciati in modo identico. È sbagliato usare l’accento al posto dell’apostrofo e viceversa.

2) L’apostrofo è la “lacrima” lasciata da una parte della parola che scompare.

Un po’ sarebbe un poco (un poco > un po’)

Di’ sarebbe dici (dici > di’)

C’è sarebbe ci è (ci è > c’è)

La regola funziona anche per gli articoli indeterminativi (un, una) che vanno apostrofati solo davanti ai nomi femminili. Perché? Presto detto:

Un’anatra sarebbe una anatra (la a scompare e lascia la lacrima: una anatra > un’anatra)

Un animale non ha bisogno di apostrofo perché nessuna lettera scompare.

Nel dubbio, lasciate una scritto per esteso, suona forse male ma almeno è corretto.

Si scrive qual è o qual’è?

Qual è uno dei drammi del nostro tempo? Qual è, appunto. Molte persone lo apostrofano senza motivo: la parola qual esiste così com’è quindi non ha bisogno di nient’altro.

La regola infatti è la seguente: l’elisione è la soppressione di una vocale alla fine di una parola davanti ad un’altra che inizia per vocale. Per esempio, l’artista sta per lo/la artista. In tal caso la “o” e la “a” spariscono e vengono sostituiti da un apostrofo; il troncamento, invece, è la soppressione di una vocale, di una consonante o di una sillaba senza bisogno di mettere un apostrofo, per esempio in “buon compleanno”.

Visto che “qual” esiste in forma autonoma (come in “qual buon vento ti porta?”) si tratta di un troncamento e non di un’elisione di “quale è” come molti, erroneamente, pensano. Bonus: qual era si scrive senza apostrofo, mentre quali erano si può elidere in “qual’erano” perché in tal caso “qual” al plurale non esiste nella lingua italiana.

Tutto chiaro?

L’accento messo a caso

Ora che abbiamo chiarito la differenza tra accento e apostrofo, concentriamoci sul primo.

Vi siete mai accorti che l’accento a volte “guarda in su” (accento acuto, come in “perché”), a volte “guarda in giù” (accento grave come in “caffè”)? Naturalmente non è una scelta fatta a caso, ma indica la pronuncia (aperta o chiusa) che deve essere data all’ultima sillaba di una determinata parola.

Accento grave o acuto?

Prima regola da tenere a mente: l’accento acuto si usa solo quando la vocale finale è la E (ma non sempre, attenzione). Ecco i casi in cui lo troveremo:

1) Se la E viene pronunciata in modo chiuso, l’accento sarà acuto: perché, benché, giacché, affinché, né, macché

2) Se ci troviamo di fronte alla terza persona singolare di alcuni verbi al passato remoto: ripeté, poté

3) Se la parola è un composto di tre: ventitré, trentatré, quarantatré

Buone notizie: l’accento grave si usa in quasi tutti gli altri casi!

1) Quando la E si pronuncia in modo aperto (come vi abbiamo spiegato prima): caffè, cioè, è… (se non siete convinti, fate una prova. Pronunciate caffè e poi pronunciate macché. La sentite la differenza?)

2) quando la parola finisce per O, perché è una vocale che si pronuncia sempre aperta: mandò, però, andò, penserò

3) quando la parola finisce per A, I, U, indipendentemente dalla pronuncia: più, serietà, colibrì…

Tutto chiaro? Niente paura, basta abituarsi.

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