Le lingue sono elastiche e il significato delle parole cambia ed evolve in modo costante. Questo processo, che a prima vista può sembrare strano, è del tutto naturale e ben conosciuto dai linguisti. Basti pensare alla parola “disco”: se agli inizi del secolo scorso veniva utilizzata per descrivere un vinile, oggi può invece riferirsi a un DVD, un hard disk o, al massimo, a un CD.
Molto più complicati, tuttavia, sono i casi in cui a cambiare di significato è una congiunzione, un avverbio o un verbo. Sembra improbabile, ma succede: i problemi nascono quando il nuovo significato introduce ambiguità nel discorso, entra in conflitto con il significato originario o addirittura gli si oppone diametralmente. In questi casi, si parla giustamente di uso scorretto del termine. Vediamo di ristabilire gli usi corretti per alcuni termini i cui significati alternativi si sono diffusi a macchia d’olio negli ultimi decenni.
Come si usa il “piuttosto che”?
“Piuttosto che” vuol dire “invece di”, “anziché”, ed è una locuzione con valore avversativo, ovvero esprimente opposizione. Dire “Incontriamoci oggi piuttosto che domani” vuol dire accordare una preferenza ad oggi rispetto a domani. Dagli anni ’80 ad oggi, tuttavia, si è diffusa la consuetudine di utilizzare “piuttosto che” in modo disgiuntivo, cioè al posto di “oppure”. Questo uso del termine ne annulla l’originario valore avversativo, denaturandone di fatto il significato: nell’esempio precedente, il senso della frase diventerebbe “incontriamoci oggi o domani”.
Comunque…
Di pari diffusione, l’uso del “comunque” come intercalare. Secondo la grammatica, “comunque” può essere usato come congiunzione, seguito da verbo al congiuntivo o al futuro indicativo: “comunque sia”, “comunque andrà”, oppure come avverbio (quindi modificando un verbo) nel significato di “ad ogni modo”: “verrò comunque giovedì”. I linguisti oggi ammettono l’uso del termine in qualità di cosiddetto collegamento o congiunzione testuale, ovvero di “coesivo”, “forma di giunzione tra porzioni di testo” (Accademia della Crusca), quindi considerando la totalità del testo e non la sua specifica posizione all’interno della frase. L’uso è dunque ammesso, ma non possiamo che dar ragione alla Crusca quando afferma che la sua costante ripetizione come intercalare lo rende “una sorta di tic linguistico che perde in perspicuità ed efficacia espressiva, come del resto avviene con altri segnali discorsivi (cioè, diciamo, praticamente)”.
Non intrigo affatto!
E che dire di intrigare? Negli ultimi decenni se n’è imposto l’uso nel senso di “interessare”, “incuriosire”. Dobbiamo rifarci perciò all’etimologia latina, che traduce il verbo intrico come imbrogliare, da cui deriva l’uso originario: una faccenda intrigante è dunque una storia poco pulita, che puzza d’imbroglio. Il dubbio sorge con frasi che diventano dei veri bisensi. Comunque sia, il nuovo significato, che secondo il Dizionario Treccani e l’Accademia della Crusca è stato trasposto dall’inglese “intriguing” e dal francese “intriguer”, è ormai entrato di fatto nel dizionario. Esso è dunque corretto.
L’uso della lingua e la sua evoluzione ci portano anche verso un completo capovolgimento del significato di certe parole. Succede con “affatto”, che dall’originale significato di “del tutto” è divenuto, nell’uso comune, sinonimo di per niente. In realtà, il dizionario ammette l’uso del termine per rafforzare una negazione, come nel caso di “niente affatto” o “non mi piace affatto”; l’errore si verifica quando viene utilizzato da solo con valore negativo. È necessario, dunque, non farlo affatto!