Illustrazione di Eleonora Antonioni
I pidgin sono lingue che nascono dalla mescolanza di idiomi differenti, in seguito a migrazioni, colonizzazioni più o meno cruente, oppure più pacifiche relazioni commerciali.
Siamo alla quinta tappa del viaggio, la penultima. E dopo la Cina con il Chinese Pidgin English, i freddi d’Islanda con il basco-islandese, le spiagge caraibiche delle isole ABC con il Papiamento, e la Papua Nuova Guinea con il Tok Pisin, ci spostiamo in Africa per affrontare la storia di una lingua pidgin che, più di tutte, racconta di un cammino che dall’oppressione e dall’ingiustizia si è indirizzata verso l’orgoglio e il riscatto: il Fanagalo.
Una lingua del sottosuolo
Sudafrica, Congo, Namibia, Zambia, Zimbabwe: terre in cui il colonialismo ha sparso sangue a fiumi, per decenni e secoli, quasi con leggerezza, e sempre per l’avidità del possesso di ricchezze celate per milioni di anni nel sottosuolo.
Il pidgin noto con il nome di Fanagalo è nato qui, usato come una lingua franca dai lavoratori costretti ai ritmi inumani delle miniere di oro, diamanti, carbone e rame (soprattutto in Sudafrica, una terra che vide le sue prime elezioni libere e democratiche solo nel 1994).
Si tratta di un linguaggio basato principalmente sulla lingua Zulu (la lingua attualmente più parlata in Sudafrica), con influenze dall’inglese e da molti altri idiomi di ceppo africano.
Il Fanagalo costituisce un’interessante eccezione nel variegato universo dei pidgin: veniva infatti usata (fino agli Settanta del Novecento) soprattutto dagli africani stessi, spesso deportati da diverse regioni negli stessi luoghi di “lavoro”, per comunicare tra loro. Per questo si basa sullo Zulu, e non su una delle lingue delle potenze conquistatrici.
Shosholoza
Il Fanagalo era anche una lingua di canti, per provare ad alleviare la fatica e il dramma di lavorare senza tregua e senza sicurezza nelle profondità delle terra.
Tra queste composizioni spontanee, la più emblematica è quella che è stata tramandata con il nome di “Shosholoza”. Veniva intonata nei cunicoli delle miniere al ritmo dei picconi, secondo lo schema tradizionale del canto a chiamata e risposta (uno schema che – appunto – nasce in Africa e si trasferirà poi negli Stati Uniti d’America, per essere adottato nel blues, nel jazz, nel rock ‘n roll e poi fino all’hip-hop).
Il testo, che poteva essere sottoposto a innumerevoli variazioni (anche linguistiche, e non solo in Fanagalo), raccontava di un treno che avanzava inesorabile, percorrendo la terra sudafricana. Un treno simbolico, simbolo di una rivoluzione sperata, o che già strisciava sotterranea, in attesa di scavarsi un futuro di libertà? Oppure solo parole, e quello che contava era il ritmo, il canto, il condividere qualcosa con altri essere umani, per sentirsi, appunto, essere umani? “Quel canto rendeva la vita più facile” ha dichiarato Nelson Mandela, che durante il suo periodo di prigionia lo intonava spesso, insieme agli altri compagni di detenzione.
Dopo la fine dell’apartheid, “Shosholoza” è diventato una sorta di inno non ufficiale del Sudafrica; viene ripreso dalle casse di tutti gli stadi dove gioca la nazionale di rugby (sport praticato, nella nazione africana, soprattutto dai bianchi); ed è stato poi utilizzato (o “snaturato” a seconda dei casi) in diversi film, spot televisivi, manifestazioni di massa.