Negli ultimi anni le segnalazioni di crimini d’odio contro la comunità LGBTQIA+ sono aumentate del 180% (fonte: Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), dimostrando che una maggiore consapevolezza rafforza anche il coraggio di segnalare. Ecco perché in questa intervista con Alberto – 26 anni, il cui nome è stato cambiare per tutelare la sua privacy – abbiamo chiacchierato di linguaggio e identità di genere.
Cos’è per te l’identità? Come ti identifichi?
Da un anno mi identifico come uomo trans, anche se con i pronomi preferisco “he/they”. Ho sempre voluto mantenere una specie di inframezzo fra i due generi, perché penso sia impossibile rifiutare la parte di educazione femminile che mi è stata data nel corso dell’infanzia e non voglio identificarmi mai totalmente come uomo.
L’identità per me è qualcosa di molto complesso, perché molto stratificata: identità di genere è una cosa, poi c’è un’identità anche sociale e l’una porta con sé a volte anche l’altra. Diciamo che l’identità di genere è quella che io ho sempre sentito più libera dal punto di vista personale, forse l’unica che ho potuto autodeterminare interamente.
Ti va di raccontarci la tua storia?
La prima volta che ho fatto coming out era da almeno due anni che pensavo sempre più frequentemente al fatto che forse c’era qualcosa che non funzionava nel modo in cui mi identificavo, in cui mi vedevo e, soprattutto, in cui mi vedevo nel futuro. Sentivo che il futuro non era mai definito, non riuscivo a proiettarmi e a trovare un’identità di genere che mi rispecchiasse. Anche nei confronti del passato non mi sono mai sentito “a posto” e nel posto giusto. Devo dire che non c’è mai stata una vera e propria epifania o un momento in cui ho detto “aaaah, adesso sono questo e non sono più quest’altro” è stato più un collegare tanti pezzetti che mi hanno portato ad una conclusione abbastanza logica e quindi è da un anno che ho iniziato il percorso.
Come stai vivendo o hai vissuto questo “passaggio”?
Dal punto di vista identitario sono sempre la stessa persona. Non ho avuto un cambiamento radicale nel modo di vestirmi o di portare i capelli, nei modi di fare… è stata più una questione di cambio di punti di vista, di decidere che non volevo più essere visto dalle altre persone con un’identità di genere femminile, bensì maschile.
Il passaggio è stato abbastanza traumatico dal punto di vista del coming out, principalmente perché le altre persone mi hanno fatto notare che è una cosa strana e difficile da percepire, in particolare per quanto riguarda la mia famiglia. Con le persone molto più vicine, invece, è stato totalmente naturale. È stato un: “guarda, da oggi, voglio essere percepito così e VOGLIO che mi sia data questa identità di genere”. Ovviamente, ci sono stati molti sbagli e alcuni mesi di assestamento, però poi è stato molto più naturale di quello che pensassi.
Secondo te quanto è importante il linguaggio per essere inclusivi?
Innanzitutto penso che il linguaggio sia fondamentale e che debba andare di pari passo al rispetto della persona in sé. Si può anche utilizzare il pronome giusto e, allo stesso tempo, non portare rispetto a persone che la maggior parte delle volte sono ancora in evoluzione e si stanno “assestando”.
Non ho mai capito bene se venga prima la decisione del pronome o la scoperta di sé stess*. Per esempio, ci sono molte persone che hanno la necessità di definire il pronome per arrivare a una completa comprensione di sé stess*. Altre persone, invece, hanno prima bisogno di scoprire cosa le rende più serene per poi decidere il pronome.
Secondo te la lingua italiana com’è messa a livello di inclusività, conoscenza e accettazione del tema?
Dal punto di vista linguistico penso che siamo anni luce indietro, anche soltanto per un assestamento del genere maschile e femminile. Banalmente, si usa sempre il maschile sovraesteso anche se in una stanza ci sono più donne che uomini. Inoltre, penso che la questione dell'”abitudine linguistica” sia un po’ troppo esagerata da certe persone, che in questo modo vogliono giustificare la propria mancanza di comprensione del problema.
Anche dal punto di vista dell’istruzione e dell’educazione, la lingua italiana non viene ancora insegnata in modo totale e funzionale. Ci sono persone che hanno carenze in italiano ancora prima di avere carenze in una situazione in cui bisogna identificare una persona secondo la sua identità di genere.
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C’è qualcosa che ti dà particolarmete fastidio?
Ho mezz’ora solo per questa domanda? Tantissime cose mi danno fastidio. Ciò che mi ha sempre irritato di più, anche per quanto riguarda me stesso, è che tutto ciò che riguarda la sfera femminile sia automaticamente degradato perché appartenente alla sfera femminile e non esaltato tanto quanto quella maschile. Una donna deve sempre dare il 110% rispetto al 90% di un uomo e non sarà comunque mai abbastanza per essere considerata al pari di una persona di genere maschile. Credo che tutti gli ambiti della vita si rifacciano a questo concetto, che sia il lavoro, l’economia, la società o la famiglia, ed è una cosa che mi ha sempre fatto arrabbiare.
Sei sempre riuscito a trovare le informazioni che cercavi?
Penso non ci sia mai stata una persona che mi abbia veramente aiutato a capirci qualcosa nel delirio che avevo in testa fino a un po’ di tempo fa – ne ho ancora un sacco, ma un pochino meno di allora. Le informazioni per me sono state pressoché impossibili da raggiungere per un lungo periodo della mia vita aka fino a due anni fa. Sia per il posto in cui sono nato e cresciuto che per la scoperta della parola “transgender”, ma anche semplicemente la parola “omosessuale” è sempre stata relegata solo a sfere di insulto o denigrazione verso altre persone.
Non sono mai stato spronato a una ricerca consapevole e felice di questi termini e temi. Un paio di anni fa c’è stato un momento in cui, nella home di Instagram, ho trovato un post di Francesco Cicconetti. Questa cosa mi fa sorridere, perché ho aperto il suo profilo, l’ho guardato e ho pensato “ah, ma quindi, si può fare questa cosa, si può vivere in modo felice e sereno in una situazione simile”. Da lì in poi ci sono stati una serie di ragionamenti, è stato come una specie di “click” che mi ha permesso di spalancare molte porte.
Hanno mai cercato di renderti fragile facendo leva sulla tua identità di genere?
Fortunatamente non mi sono mai successi episodi gravi. Ci sono state alcune situazioni, in particolare nella mia adolescenza, in cui mi facevano le solite domande, in cui ricevo commenti sul modo in cui mi vestivo e io non ero ancora consapevole di tutto questo. Non ci pensavo nemmeno. Certe persone che non avevo mai visto in tutta la mia vita mi fermavano sulla strada di casa per chiedermi “perché ti vesti da maschio, perché fai questo, perché fai quello?” Sono successe anche altre cose meno piacevoli, però in questo frangente mi sento ancora abbastanza fortunato.
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Secondo te perché la “diversità” viene così tanto odiata?
Ci sono delle situazioni in cui certe persone, che sono sottostate per tutta la vita a degli standard, decidono che quelli sono gli standard che tutt* devono seguire. Credo che questa sia una delle motivazioni per cui alle volte si arriva all’odiare così tanto qualcuno. Altrimenti, non riesco a capire come si possa arrivare a tanto. Se non per invidia, o per “se io sto male allora anche tu devi stare peggio perché stai osando rompere qualcosa che invece tutte le persone devono seguire”. Non voglio dare nemmeno tutta la colpa all’ignoranza perché sappiamo bene, vedendo tutta la storia umana, che non basta essere persone acculturate per predicare la pace nel mondo, però fa sicuramente una grande parte.
Cosa consiglieresti a chi vive la propria identità di genere con difficoltà?
Purtroppo non sempre è possibile incoraggiare una persona ad essere sé stessa, fregandosene di quello che pensano gli altri, perché a volte ci sono davvero delle situazioni al limite del mortale o della vessazione. In quei casi la cosa che più mi verrebbe da dire è: fare molta introspezione, se si ha la possibilità, andare in terapia. Altrimenti cercare di allontanare quelle persone “tossiche”, se così possiamo definirle, che non lasciano spazio all’espressione della propria personalità. Quindi: cercare almeno di allontanarsi il più possibile da ambienti che potrebbero nuocere alla salute, così da avere più spazio per sé stess*.
Quale potrebbe essere un buon modo per informare le persone?
Sarebbe bello riuscire a informare anche semplicemente in piccola scala, magari consigliando un libro alle persone vicine che magari conoscono la situazione e sono un po’ scettiche. Per esempio, un po’ di tempo fa ho consigliato a un po’ di persone di leggere “Middlesex” di Jeffrey Eugenides e queste erano felicissime di averlo letto. Tra l’altro, è un libro bellissimo e affronta la tematica dell’intersex, di come una persona vive “l’essere intersex”, in una società che ancora non riesce a vedere ciò che c’è in mezzo tra l’essere uomo ed essere donna. Queste dinamiche sono fondamentali e importantissime. Per quanto riguarda l’informazione su larga scala, bisogna essere pront* a fare una cosa del genere, perché causa un sacco di stress ed è un grande peso, sia emotivo che mentale.
Qual è il punto di vista sulla società di una persona che vive questo percorso?
È una domanda un pochino complicata. Non penso di avere una consapevolezza superiore. Ma è molto istruttivo vedere come tantissime persone non si rendano conto di quanto stiano impersonando un ruolo che loro invece credono estremamente naturale e intrinseco all’essere umano. Come se nascere donna piuttosto che uomo comportasse automaticamente mettersi un certo tipo di vestito, delle scarpe col tacco o una cravatta.
Sei felice?
Bella domanda… mhhh, sì? Ma è un grande alto e basso. Ci sono molti momenti in cui sono contento di essere arrivato dove sono, ma il passo dopo è sempre tutto il resto del percorso, che probabilmente non finirà mai.
Illustrazione in copertina: SOQQUADRO