Lo sapevi che ci sono fra le 6.000 e le 7.000 lingue parlate nel mondo da oltre 6 miliardi di persone divise in 189 Stati indipendenti? Forse sì. Ma cosa penseresti se ti dicessi che ipoteticamente, se esistesse un superuomo capace di padroneggiare tutte le 7.000 lingue parlate nel mondo, lo stesso uomo potrebbe sviluppare ben 7.000 personalità diverse? No, questa puntata non ha come protagonista un individuo dalle personalità multiple. Bensì un linguista dalle personalità multiple.
Carlo Magno – un uomo con una lunga lista di titoli che accompagnano il suo nome – ha detto che “conoscere una seconda lingua è come avere una seconda anima”.
Questa è anche la tesi pubblicata sul giornale The Economist, che ha battezzato come “multilinguismo camaleontico” il modo che hanno le persone di cambiare atteggiamento a seconda del linguaggio parlato. È il semplice fatto di esprimersi in un idioma diverso da quello imparato da bambino, a far emergere aspetti nuovi del proprio carattere. Questa teoria in linguistica prende il nome di Whorfianism, in memoria del suo ideatore, e indica quei poliglotti che pensano più lentamente quando parlano una lingua straniera e che per questo si sentono “diversi”, mentre quando tornano alla lingua madre acquistano sicurezza, sono più spontanei, spesso più sciolti e persino più divertenti. Sicuramente, se parlate più lingue, sapete di cosa sto parlando.
Questi studi confermano quanto già proposto, negli anni ’50 del Novecento, da Susan Ervin-Tripp, dell’Università di Berkeley. Ervin aveva condotto uno studio su donne bilingue, giapponesi e americane, alle quali aveva chiesto di completare nelle due lingue delle frasi, scoprendo che le risposte erano modellate dalla lingua utilizzata. In giapponese esprimevano una visione del mondo più conservatrice, mentre in inglese esprimevano una maggiore propensione all’emancipazione.
Indossiamo insomma dei panni diversi, quando parliamo un’altra lingua. È un po’ come travestirsi e salire su un palcoscenico, non ci si sente se stessi al 100% e si mimano dei tratti caratteriali che magari non ci appartengono. Quando abbiamo diverse abilità e conoscenze a seconda della lingua di riferimento, si parla di “asimmetria delle competenze”. Se sono un parlante madrelingua italiana e al contempo uno studente di medicina internazionale, avrò un lessico inglese molto ricco per quanto riguarda il gergo medico, ma potrei avere delle difficoltà per quanto riguarda gli aspetti comici della lingua, come l’ironia e i doppi sensi. Per non parlare poi del tono, del volume di voce e dell’approccio alla discussione, che inevitabilmente cambiano da una lingua all’altra (avete mai provato a parlare a bassa voce in spagnolo?). Infine, il neurologo cognitivista Abutalebi aggiunge: «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale e dei sentimenti». In sostanza, il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.
Una prospettiva più marcatamente culturale è quella di Lera Borodktsky, autrice di un bellissimo ted talk intitolato How language shapes the way we think. Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non esistono lemmi per indicare i numeri, ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato: i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Le persone che parlano lingue diverse fanno attenzione a cose diverse e hanno una differente percezione del tempo e dello spazio. Anche la scrittura influisce (se cambia da sinistra a destra, o da verticale a orizzontale), per non parlare del modo in cui contiamo o vediamo i colori. Avete mai riflettuto sul fatto che in inglese si dica blue per esprimere molte sfumature? Un altro esempio proviene dal francese, lingua in cui “essere violentati” si traduce con se faire violet, come se fosse la vittima stessa a provocare lo stupro. Inoltre, in inglese se un vaso “si rompe” si sottintende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, mentre in italiano o in spagnolo si tende a dire che il vaso “si è rotto”.
Ogni lingua veicola quindi degli specifici valori culturali che non sono separabili dalle sue possibilità espressive. Insomma, il linguaggio funziona come una specie di “lente”, attraverso la quale finiamo per vedere il mondo intorno a noi. E dentro di noi. Non stupisce, ad esempio, che in cinese “drago” rimandi a un simbolo di fortuna, forza e saggezza e non solo a un animale fantastico.
Chiudiamo con una ricerca piuttosto peculiare, ovvero quella di Keith Chen, un economista che ha stabilito una connessione tra la lingua parlata e la capacità di risparmiare denaro. Sarebbe tutto connesso alla percezione del futuro. Keith Chen sostiene infatti che il nostro atteggiamento verso il futuro abbia una forte relazione con la lingua che parliamo. Ad esempio, alcune lingue si riferiscono al futuro usando verbi ausiliari come will e shall, mentre altre non hanno verbi specifici per riferirsi alle azioni future. Chen ha correlato questi due tipi di linguaggio con tassi di risparmio notevolmente diversi. Indovinate chi risparmia di più? Ovviamente quelli che vedono il futuro come qualcosa di “staccato” e non come una semplice estensione del presente.
FONTI:
La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello
Poliglotti come camaleonti: se parlano un’altra lingua cambiano personalità
La lingua che parliamo influenza la nostra personalità
Si cambia personalità cambiando lingua?
Quando parliamo un’altra lingua cambiamo personalità?