La nostra lingua è molto indebitata. Monete e parole hanno una cosa in comune: sono strumenti di scambio. E così come le banche, anche le lingue concedono prestiti. Per prestito linguistico s’intende – e qua cito direttamente la Treccani – “una parola, una locuzione o una costruzione sintattica di una lingua straniera che entra nel lessico di un’altra lingua”. Oggi ci concentreremo proprio sui forestierismi che usiamo quotidianamente senza a volte sapere che derivano – in maniera anche sorprendente – da altre lingue. Per fare alcuni esempi: bistecca, smoking, lanzichenecco.
Nel lessico italiano contemporaneo si contano oltre 6.000 prestiti (di cui circa 4.500 nei linguaggi tecnico-specialistici). L’italiano conta tra le 215.000 e le 270.000 unità lessicali, quindi, per quelli che si preoccupano di un’invasione delle parole straniere nella nostra lingua, direi che possiamo stare tranquilli. Ammettiamo però che in certi ambiti, specialmente quelli aziendali, c’è un eccesso di inglesismi, anche quando non sono necessari, come nel caso di opportunity al posto di “opportunità”.
Ma perché ci facciamo prestare le parole? Per caso non ne abbiamo di nostre? In effetti, è proprio così. Infatti, moltissimi prestiti nascono da una lacuna lessicale, perché si tratta di referenti che nella nostra cultura di appartenenza non esistevano. Pensiamo all’esempio più classico dei cibi importati. Ad esempio, mais, patata e avocado sono chiaramente dei prestiti, mediati dallo spagnolo e provenienti dalle lingue indigene del Sudamerica, perché si tratta di alimenti che in Europa non si erano mai visti. In certi casi, anche bevande che sono probabilmente diventate un simbolo di italianità prendono il nome da altre lingue. Ad esempio, la parola caffè, alla quale siamo tanto affezionati, viene dall’arabo ed è stata mediata dal turco.
A proposito di cibo e prestiti, a me viene sempre in mente la parola brioscia, che in realtà non esiste. Come potete immaginare, la pasta con cui facciamo colazione al mattino e che è comunemente nota come brioche viene dal francese. Eppure, in alcune parti d’Italia è stata riadattata dai parlanti. C’è chi dice cornetto e chi brioscia (specialmente in Sicilia, dove sono nata). Non è per forza indice di ignoranza, bensì un segno di adattamento alle regole lessicali e fonetiche della nostra lingua di una parola straniera. Un po’ come nei casi di cui discutevamo prima: bistecca e lanzichenecco. In questi casi è più giusto parlare di calchi linguistici. Anche se la provenienza etimologica è straniera infatti, queste parole sono diventate italiane a tutte gli effetti: è il caso anche di besciamella, burro o fuorilegge (calco dall’inglese outlaw) e persino di giallo, ragù e grattacielo, ma anche di cocchio (adattamento dell’ungherese kocsi), schiaccianoci (dal tedesco Nussknacker) e tascabile (dall’inglese pocket book). Rimanendo in ambito editoriale, la parola manuale proviene direttamente da handbook, inventata da Ulrico Hoepli. Persino aria condizionata è un calco e anche realizzare. In italiano infatti, realizzare non aveva la stessa valenza di realise, che in inglese significa “apprendere qualcosa”, mentre in italiano significava “costruire” e solo in un secondo momento ha acquisito il significato più figurato di “rendere qualcosa reale nella nostra mente”.
C’è quindi da fare una distinzione tra prestiti che si adattano (ovvero prestiti integrati) e prestiti che invece non si adattano, ma rimangono nella lingua di appartenenza (che sono la maggior parte). La lista è davvero lunga: film, bar, garage, baby sitter, gay, abat jour, paella, leitmotiv, cliché, Weltanschauung, stage, sushi e kebab sono solo alcuni esempi.
È ovvio poi che ad incidere è anche l’epoca storica di riferimento. Nel corso dei secoli, diversi Paesi si sono contesi le sfere d’influenza, creando una più o meno ampia egemonia culturale. L’Italia, ad esempio, è stata la culla del Rinascimento e di conseguenza l’italiano del tempo, la lingua del commercio e delle lettere, ha esportato tantissimi termini tra cui banca, che è stato poi adottato da altre lingue.
Il francese invece è stata la lingua dell’Illuminismo, mentre oggi l’inglese è la lingua dell’informatica e della comunicazione aziendale. Ecco perché abbiamo tantissimi inglesismi come smartphone, computer, modem, call, brief, meeting, budget e così via.
Anche chi non è esperto di linguistica, quindi, avrà certamente notato che i forestierismi, o più propriamente i prestiti linguistici, sono ormai all’ordine del giorno. Se da una parte è indubbio che vadano ad arricchire il lessico, dall’altra, sono tante le persone che temono una deriva linguistica e una sorta di perdita di identità culturale, in quanto, troppo spesso, si rinuncia con facilità all’uso della propria lingua. C’è anche chi ha messo in atto una politica protezionistica, come la Francia, che a partire dal 1975 ribadisce ciclicamente il divieto di usare termini inglesi nell’amministrazione pubblica e nella pubblicità: l’ormai universale computer in francese è infatti ordinateur e il software è logiciel. Ma anche in spagnolo, ad esempio, il mouse che usiamo per muovere il cursore sul nostro computer, è chiamato ratón (si tratta comunque di un adattamento, perché è sempre una traduzione di topo).
Per altre parole invece non ci si è fatti questo problema perché si crede che siano prestiti di lusso, ovvero parole a cui corrispondono voci già presenti nel nostro vocabolario, ma a cui attingiamo per dare più colore al parlato o per essere più eleganti. Un esempio è la parola francese toilette che, nonostante trovi in italiano vari corrispondenti, come bagno o gabinetto, è stata adottata nel Settecento per via della grande influenza francese in ambito culturale.
Quello che però trovo più affascinante dei prestiti è che possono assumere vita propria, sviluppando dei significati altri nella lingua di arrivo. L’esempio più noto è lo smoking, di chiara derivazione inglese, che in italiano indica un particolare abito maschile da sera, in inglese britannico chiamato dinner jacket e in inglese americano noto come tuxedo. Probabilmente smoking deriva da to smoke, “fumare”, ed è attribuibile al fatto che la giacca venisse originariamente indossata prima di andare a fumare in apposite sale dopo il pasto.
A proposito di pasti, noi italiani siamo i più grandi esportatori, insieme ai francesi, di parole che riguardano la cucina. Pasta, pizza, parmigiano, salami, spaghetti, gnocchi.
La parola che preferisco tra i prestiti italiani in altre lingue, però, non ha a che fare con la cucina ed è bravo, che si è diffusa durante il periodo d’oro dell’Opera italiana.
Da quello che abbiamo detto finora possiamo attestare che i prestiti rappresentano un tipo particolare di neologismo, se non altro per la capacità che hanno di ampliare e arricchire il lessico di una lingua. È opportuno quindi evitare atteggiamenti di chiusura o censura verso i prestiti, che devono essere usati soprattutto quando non esiste in italiano un vocabolo corrispondente per esprimere il concetto o l’oggetto designato.
Alcuni esempi ci vengono dalla cronaca e dal dibattito pubblico. Pensiamo al termine whistleblower, letteralmente “chi soffia il fischietto”. Dalla cultura angloamericana indica una persona che lavorando all’interno di un’organizzazione si trova ad essere testimone di un comportamento irregolare e potenzialmente dannoso per la collettività e decide di segnalarlo all’interno dell’azienda stessa, all’autorità giudiziaria o all’attenzione dei media, per porre fine a quel comportamento. Una parola apposta è stata creata in un contesto culturale con diverse leggi che incoraggiano a denunciare illeciti. Sono anche scoppiati dei casi clamorosi, come quello di Edward Snowden, ex membro della CIA. Per ragioni culturali, in Italia non abbiamo mai avuto a che fare direttamente con dei whistleblower, cercare quindi un termine autoctono sarebbe leggermente forzato.
Così è successo in passato per altre parole come mobbing o stalking, adesso completamente inserite nel nostro vocabolario.
In conclusione, citiamo la Treccani, il nostro faro nella notte. “Non si deve abusare delle parole straniere, in particolar modo quando il vocabolo straniero ha un sinonimo già diffuso nella lingua di arrivo, come nel caso di coffee-break, che corrisponde perfettamente all’italiano pausa caffè“.
FONTI:
Cosa si intende per prestito linguistico