“Questione di feeling”, cantava Mina. “Questione di genere”, diremmo invece noi. Dopo “petaloso”, il dilemma linguistico che sta facendo più discutere è la declinazione femminile di alcuni nomi, tradizionalmente usati solo al maschile. Si tratta principalmente di professioni che per tanti anni sono state appannaggio maschile e solo da qualche decennio l’accesso è libero per le donne: “ministra”, “architetta”, “magistrata”, “chirurga”. Lo so, lo so. State storcendo il naso. “Suona male”, direte. Vi siete mai chiesti il perché?
C’è ancora qualche reticenza riguardo alle declinazioni al femminile nella lingua italiana. E questo avviene nonostante l’Accademia della Crusca – baluardo a salvaguardia della lingua italiana – abbia tenuto più volte a ribadire l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali (non solo “la ministra”, ma anche “la presidente”, “l’assessora”, “la senatrice”, “la deputata”). La stessa operazione, però, non è avvenuta per mestieri più “tradizionali”: “l’infermiera”, “la maestra”, “l’operaia”, “l’attrice”, il che fa pensare che ci sia qualche imbarazzo a considerare i primi ruoli propri delle donne e quindi del genere femminile, e i secondi no.
Linguisticamente, quindi, si può fare. Inoltre, dal punto di vista strutturale e morfologico della lingua, c’è poco da indignarsi. Usare “sindaca” non è sbagliato, non è un nome indeclinabile, perché la radice è sindac- e la desinenza in -o serve per esplicitare il genere, femminile o maschile. Diverso il caso di parole maschili che terminano in -a, conservando l’origine greca, come “pilota”, “farmacista”, “regista”. In quel caso, basta cambiare l’articolo. Stesso discorso per quelle che terminano in -e, di genere comune, che restano invariate (“la giudice”, “il giudice”).
Sulla presunta cacofonia del femminile (il famoso “suona male”), è bene citare il linguista Luca Serianni: “Le parole nuove suscitano sempre sospetto nella comunità dei parlanti, che per istinto è conservatrice”. Insomma, è una questione di abitudine. Aggiunge Sergio Lepri, docente di Linguaggio dell’informazione: “L’androcentrismo linguistico è un problema che esiste solo in Italia”. In sostanza, una forzatura ci sarebbe se la lingua non registrasse un cambiamento avvenuto all’interno della società con l’ingresso di tante donne nella vita politica e professionale. Un ingresso che, ad oggi, non viene riconosciuto dalla lingua.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono di tipo culturale.
Questo significa che l’italiano è una lingua sessista? Più che la lingua, è l’uso della lingua che è sessista.
Stiamo infatti parlando di un problema di rappresentazione, o per meglio dire, di mancanza di rappresentazione del genere femminile nella lingua. Un “occultamento linguistico” – questo il termine tecnico – che rifletteva un tempo il numero esiguo di donne all’interno della comunità economica, politica e professionale, almeno, come abbiamo visto, per quel che riguarda certe professioni di prestigio.
La linguista Alma Sabatini, con il suo “Sessismo nella lingua italiana”, pubblicato nel 1987, ha messo in evidenza come la figura femminile venga spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo.
Dobbiamo quindi lavorare insieme ad un uso non discriminatorio della lingua. Anche perché la lingua influenza il pensiero, non è uno strumento neutrale, e solo coltivandola possiamo realizzare una cultura di pari opportunità. Pensiamo ad esempio all’uso svilente della parola “avvocatessa”, fatto dalla stampa a partire dalla fine dell’Ottocento. Tale appellativo ormai era diventato un sinonimo di incompetenza. In quel caso, il termine ha assorbito delle sfumature ironiche e caricaturali. Ecco perché si preferisce “avvocata”. Simile è il caso di “deputatessa”. Al contrario, quando non si è fatto un uso denigratorio della lingua, altre forme femminili in essa si sono imposte senza problemi, come “professoressa” o “dottoressa”.
Citiamo le parole di Cecilia Robustelli, collaboratrice dell’Accademia della Crusca e docente di Linguistica: “Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo affinché possano far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del Paese. Il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo, quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso?”
Siamo però sicuri che il problema della parità lo si risolva veramente utilizzando il termine “ministra” al posto di “ministro”? Il rischio vero, per una donna, non è tanto quello di non essere chiamata “al femminile”, quanto quello di non poter mai occupare posizioni di rilievo. Insomma, un modo più articolato per dire “i problemi sono altri”. Eppure, l’uso delle forme femminili e non maschili per indicare ruoli, funzioni e professioni non è un capriccio da politically correct. Il genere grammaticale contribuisce innanzitutto a identificare inequivocabilmente il soggetto a cui si riferisce (evitando equivoci o perifrasi come “il ministro donna”) e determina il riconoscimento della differenza, ma al contempo della parità tra uomo e donna. Definire una donna con un titolo di genere grammaticale maschile per indicare il suo ruolo professionale o istituzionale comunica che tali ruoli sono riservati agli uomini e che una donna è un’eccezione.
I dizionari non possono più essere maschilisti (ignorando la ministra o solo scherzando con questo termine) e i parlanti sono invitati a verificare, prima di ritenere formalmente sbagliato un uso della lingua. Urge un adeguamento di lessico alla presenza della donna nella società. E no, non è un problema secondario. Ci saranno sempre altre emergenze, ma questo non ci impedisce di far fronte a più battaglie contemporaneamente.
FONTI: