La Linguacciuta: la situazione è grammatica – 8° episodio

Un ripasso di alcune regole grammaticali dell’italiano e un’indagine sui motivi degli errori più frequenti: sono tutti da condannare? Scopriamolo insieme a Ilenia Zodiaco nell’ottava puntata de “La Linguacciuta”!
La linguacciuta - ottavo episodio

La situazione è grammatica. Cito il titolo di un libro di Andrea De Benedetti perché mi sembra piuttosto adatto alla puntata di oggi, in cui parliamo proprio dei tanto temuti errori grammaticali. Perché li commettiamo e soprattutto: quanto è salata la multa da pagare?

Prima di iniziare però, mi è sorto un dubbio: perché si usa l’aggettivo “salato” per indicare un conto molto alto da pagare? L’etimologia si rifà all’antica Roma, in cui i soldati delle legioni venivano pagati in sale, all’epoca bene preziosissimo. Ed ecco perché si dice anche “salario”.

Bene, dopo questa breve pillola, torniamo a parlare di grammatica. La situazione dell’italiano è davvero così drammatica? Ci sono diverse scuole di pensiero, o per meglio dire, due “barricate”. Da un lato troviamo i “vigilantes” della lingua, i difensori, i puristi che si scagliano contro l’invasione incontrollata di prestiti e neologismi e che soprattutto mostrano la massima intransigenza nei confronti degli errori grammaticali. Dall’altro invece, abbiamo i “possibilisti”, che non sono anarchici, non tifano per un’assenza totale di regole, ma si mostrano un po’ più comprensibili. Quindi diciamo che esistono una grammatica prescrittiva che sanziona duramente l’errore e lo censura e una grammatica più descrittiva che osserva le tendenze dei parlanti e si mostra più incline a credere che, in fin dei conti, a definire le norme delle lingue è sempre l’uso dei parlanti, altrimenti avremmo una lingua morta.

L’importante è capire da dove nascono questi errori, senza fare i pedanti sentendoci migliori perché ne commettiamo di meno. Tutti gli strafalcioni sono frutto di ignoranza oppure certe devianze dalla norma grammaticale possono indicare delle regole ormai obsolete, che non funzionano più?

Cominciamo dalle sviste più gettonate: accenti e apostrofi… Solo dolori. Diciamolo una volta per tutte: un po’ va con l’apostrofo e non con l’accento, mentre su alcune parole non c’è né l’accento né l’apostrofo, anche se tanti si ostinano a metterceli: non lo so con l’accento sulla o, così come sto e qua… Lasciamoli in pace. Una parola che invece vuole l’accento anche se non lo mette mai nessuno è l’asserzione , altrimenti si confonde con la particella si

Poi, il numero di puntini di sospensione è sempre e solo tre, non quattordici, non è un concorso a premi, se ce ne mettete di più non cambia. Inoltre, l’articolo indeterminativo un si apostrofa solo se è al femminile e accelerare va con una sola l (ma su questo mistero ci torniamo dopo).

Un’altra grande trapppolona sono i pronomi gli/le per indicare rispettivamente maschile e femminile. Gli ho parlato se ho parlato con Tommaso, le ho parlato se ho parlato con Virginia. Sembra facile, ma in realtà ci caschiamo un po’ tutti, soprattutto nel parlato.

E poi ci sono tutti gli errori di ortografia che derivano dal leggere molto poco, come per esempio evacuare o scuola con la q, polizia con due z, piuttosto scritto più tosto

Inoltre, qual è si scrive senza apostrofo perché – diciamolo tutti insieme in coro – non è elisione ma troncamento. Questo perché l’apostrofo si mette per segnalare la vocale che è caduta, come in una sorta di lapide per dire “ehi, qui giace una vocale caduta in combattimento” e quindi si mette l’apostrofo come omaggio. Mentre nel caso di qual non esiste alcuna vocale caduta, non è quale a cui è caduta la e, ma è proprio qual, come qual buon vento. La confusione nasce dal fatto che qual non è una forma tanto comune nell’italiano moderno e perciò il parlante – a cui è stata insegnata la regola dell’apostrofo – si ipercorregge, riproduce una regola pensando di essere nel giusto, anche se la scuola ha imposto qual è come punto di singolarità. Ci siamo cioè fissati su una regola ortografica che è più una questione stilistica che di sostanza. Insomma, una regola decisamente sopravvalutata. Questo non vuol dire che si debba smettere di usarla, ma che se si sbaglia non occorre farne un caso di Stato. Se vi state indignando per queste mie parole, sappiate che qual è con l’apostrofo è stato usato e viene ancora usato da scrittori famosissimi, come Collodi, Pirandello e Saviano.

Ricordiamolo: vince l’uso, perché  la lingua non appartiene ai grammatici, ma a chi la usa. Lo scopo principale della grammatica è far sì che i parlanti si capiscano tra loro. In questo caso, tra le battaglie che si dibattono con ferocia, mi sento di appoggiare di più quella mossa contro il “piuttosto che” con valore disgiuntivo, usato quindi con significato equivalente a “oppure”. Preferisco mangiarmi un panino col salame piuttosto che con la mortadella invece del minestrone. Ecco, questa frase è un pasticcio perché nonostante l’uso dilagante del “piuttosto che” disgiuntivo, c’è ancora qualcuno che ne conosce il vero significato e che, leggendo questa frase, si troverà a dir poco confuso. “Piuttosto che” vuol dire esattamente il contrario di “oppure”, ma viene spesso utilizzato credendo di aggiungere una particella elegante al discorso, commettendo invece un errore da penna rossa. Andiamo a Milano in treno piuttosto che in aereo significa che andiamo a Milano in treno perché in aereo non ci voglio andare. Quindi capirete bene che se “piuttosto che” è usato invece al contrario, come sinonimo di “oppure”, la frase cambia completamente di significato.

“In ogni linguaggio” – scriveva Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere – “esiste di fatto una grammatica normativa costituita dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla censura reciproca“.

Ribadiamo quindi una nozione fondamentale: la lingua presenta una varietà infinita di usi in funzione dei bisogni espressivi di chi la parla. Un uso può quindi risultare errato se impedisce la comunicazione, se è tipico della varietà popolare o se è un uso idiolettale, ovvero soggettivamente discutibile, come “petaloso”, che è una parola potenziale, grammaticalmente accettabile, ma non ancora imposta nell’uso. Io ad esempio faccio un grande uso di parole inventate da me, e tutti lo facciamo, perché la lingua ha un potenziale creativo infinito. Ci saranno sicuramente delle espressioni che usate tra amici e familiari, ma che non vogliono dire niente al di fuori del vostro gruppo. Pensate al romanzo “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg. Istituzionalmente però, gli usi creativi della lingua sono considerati errori, anche quelli dei poeti, ma bisogna sempre riflettere su cosa c’è dietro, ed è questo il senso della puntata di oggi, riflettere sui motivi degli errori.

Ma torniamo ad accelerare: sappiate che ci sono almeno una dozzina di usi letterari del verbo accelerare scritto con due l, come in D’AnnunzioGoldoni. Questo perché la pronuncia vorrebbe la doppia l, ma è stato forzatamente imposto un freno a mano sull’evoluzione di questo verbo, anche se scriverlo con due l non è un errore di natura profonda che impedisce la comprensione.

Veniamo infine ai consigli pratici. Per evitare errori grammaticali e acquisire una maggior consapevolezza del linguaggio bisognerebbe leggere con regolarità e scrivere molto, soprattutto a mano.

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