“Caravaggesco”, “hitchcockiano”, “dongiovanni”, “perpetua”. Sono tutti deonomastici, ovvero parole che derivano da nomi propri. Mi devo rassegnare al fatto che probabilmente non si userà mai l’aggettivo “zodiachiano” per riferirsi alla mia persona, ma mia madre probabilmente continuerà a dirmi che faccio delle “ileniate”.
Sono molti i sostantivi e gli aggettivi che prendono il nome da uomini e donne illustri o da luoghi noti, ma paradossalmente molto spesso ne ignoriamo completamente l’origine. Questo perché i deonomastici non nascono soltanto per omaggiare il soggetto da cui riprendono il nome, ma perché, molto più umilmente, suonano talmente bene e si sono adattati così tanto alla lingua che hanno assunto totale autonomia e, come accade per tutte le parole, ci si è dimenticati dell’etimologia del significante e quel che è rimasto è il loro significato.
Un’importante premessa è che i deonomastici possono essere circoscritti soltanto a determinati Paesi o anche ad alcune regioni. L’esempio più immediato che mi viene in mente è “giufà”, un modo di apostrofare tipicamente siciliano che deriva da un personaggio del nostro folklore e che indica un individuo credulone, goffo e – diciamolo – anche un po’ “babbo”. Quindi, se vi dicono “sei nu giufà”, sappiate che non è un complimento.
I deonomastici hanno quindi un fortissimo connotato culturale, anche perché i nomi propri da cui derivano non hanno sempre un significato chiaro. “Federico”, “Giulia” e “Giuseppe” non vogliono dire niente, a meno che non si indaghi sulla loro etimologia.
Tutti sappiamo cos’è un “tallone d’Achille”; molti forse non sapranno declamare tutta la biografia dell’eroe greco da cui è nata l’espressione, ma tutti conosciamo il suo punto debole. Questo perché nella cultura italiana è tenuta in grande considerazione la civiltà classica, ma in altri Paesi potrebbe non essere così scontato. La stessa cosa vale per il “filo di Arianna”, che allude a una soluzione e a una via d’uscita da un labirinto, o all’“essere una Cassandra”, che significa saper profetizzare sventure, e così “Adone”, l’amante di Venere, un “giovane molto bello”.
Ci sono anche dei casi in cui il termine derivato cela completamente l’origine da cui è tratto. Tutti noi usiamo la parola “boicottaggio”, ad esempio, ma in pochissimi forse sanno che è un deonomastico che deve la sua origine a Charles Boycott, un imprenditore e amministratore terriero inglese vissuto nell’800, ostracizzato dalla comunità locale e dai suoi lavoratori. La campagna contro l’imprenditore divenne famosa nella stampa britannica che coniò il termine (la stampa, tra l’altro, è una grande fabbrica di neologismi). L’italiano ha semplicemente fatto una classica operazione di calco, importando poi il termine. Per motivi storici e culturali, l’episodio non ebbe grande eco da noi, ma la parola gode ancora oggi di ottima salute, anche se tanti italiani continueranno a ignorare chi fu Charles Boycott. Altri esempi di questo tipo sono il termine “mansarda”, che deriva dall’architetto parigino François Mansart, e il termine inglese sandwich, che proviene dal Conte di Sandwich, un grande estimatore del panino. Oltre alla stampa, una straordinaria fucina di deonomastici sono il cinema e la letteratura. “Pinocchio”, l’“armata Brancaleone”, “Rambo” e “Fantozzi” sono solo alcuni esempi.
Un’altra area fertilissima per quanto riguarda la deonomastica è il commercio; esistono infatti un’infinità di termini che prendono il nome dal loro inventore, dalla marca con cui sono stati smerciati o dal loro luogo di produzione, soprattutto se si tratta di nomi di alimenti o bevande, pensate al Marsala, al gorgonzola, al taleggio o all’asiago.
Riguardo alle marche di aziende, ci sono nomi che ormai fanno parte del nostro vocabolario anche se non sappiamo che in realtà si tratta di nomi propri di persona o di brand che li hanno resi famosi; si tratta in questo caso di marchionimi. Qualche esempio? “Borotalco”, “k-way”, “cardigan”, “montgomery“, “biro”, “scotch”, “clacson”, “kleenex”.
Insomma, i deonomastici sono sicuramente una delle parti più vive e volubili della lingua. Recentemente mi è capitato a tiro un altro singolare caso di deonimia: il film “Roma” di Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d ‘oro alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, prende il suo titolo dal quartiere di Città del Messico “Colonia Roma”, ma c’è un altro elemento: un noto marchio di saponi messicano si chiama proprio “Roma” e la protagonista della pellicola è una domestica; inoltre, l’acqua saponata è inquadrata più volte.
Ad ogni modo, che sia ispirato da un modello colto o straniero, che sia mutuato da un dialetto o da un gergo specialistico, che provenga dallo slang o dai media, il deonomastico è uno splendido motore creativo per i neologismi.
Cito in conclusione Francesca Dragotto, che scrive su Treccani: “In questo processo appare incontestabile il ruolo strategico spettante all’emotività. Consegue allora, dal ruolo strategico detenuto dalla sollecitazione esercitata sul parlante da un fatto inatteso, percepito di straordinaria importanza (quand’anche relativa all’hic et nunc) per la vita sociale della comunità, l’importanza attribuibile ai media, vecchi e nuovi, nella ricerca di nuovo lessico: i media, infatti, oltre che come generico veicolo di diffusione, sintetizzano e riflettono, ciascuno con le proprie peculiarità, la condizione e le attività linguistiche di una società in perenne fermento, a maggior ragione quando il processo della creazione lessicale, pur riguardando ambiti linguistici teoricamente limitati, risulta in grado di dilagare nel linguaggio quotidiano”.
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