Siamo quello che pensiamo. Ma come si articolano i pensieri nella nostra testa? La nostra lingua, ovvero i mattoncini con cui costruiamo le nostre idee, di che sostanza è fatta? E da cosa è stata influenzata? Da dove arriva la cascata di parole che conosciamo e perché, tra tutte quelle che abbiamo immagazzinato nel corso della nostra vita, continuiamo a scegliere sempre le stesse? Così tante parole e così poco tempo…
Anche se voi e le lingue straniere siete due rette parallele che non s’incontreranno mai, non pensate che parlare una sola lingua significhi davvero parlarne una sola. Infatti, una lingua è come una matrioska, al suo interno ne contiene tante altre. Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà possedute da un parlante, a seconda di dove è cresciuto, delle origini della sua famiglia, delle influenze culturali ricevute e della sua istruzione, ma anche dello status sociale e della situazione comunicativa. Tutti noi ogni giorno passiamo da una gamma all’altra della lingua, anche in uno stesso dialogo (pensiamo, per esempio, a quando siamo in famiglia e parliamo in dialetto o a quando siamo a scuola e dobbiamo parlare in modo più formale). La stratificazione del nostro linguaggio è straordinaria. Ogni lingua ha diversi registri e sottocodici a cui poter attingere. Il registro può essere aulico, formale, familiare, colloquiale, medio o colto a seconda del contesto e determina ovviamente il tono e lo stile della conversazione. Quando si dice che un discorso ha un certo “colore”, ci si riferisce al registro.
Altre differenze che determinano un uso diverso della lingua sono l’età e il sesso. Già, anche il sesso. Diversi sociolinguisti hanno osservato dei fenomeni molto interessanti tra le abitudini delle donne e quelle degli uomini. Le donne avrebbero una gamma più ampia di intonazioni nel parlato e una minore propensione a interrompere l’interlocutore e farebbero un uso più intenso di espressioni di carattere emotivo. Anche se nell’italiano queste distinzioni non sono così accentuate, in altre lingue segnano un distacco evidente. Lo sapevate che il giapponese parlato dalle donne possiede una grammatica e un lessico diversi da quello maschile?
Le varietà all’interno di una stessa lingua non si fermano qui. Oltre ai registri, ci sono i sottocodici. Il sottocodice è un linguaggio specialistico legato a determinate attività culturali o professionali. Un esempio è il sottocodice politico. Non so che tipo di conversazioni siate soliti intrattenere con i vostri amici, ma difficilmente si usano termini come “decreto legge”, “potere esecutivo” o “quorum” al di fuori della cornice politica. E poi ancora il sottocodice burocratico, economico-finanziario, sportivo, medico, marinaresco…
Diverso è invece il discorso del “gergo”, termine che viene dal francese jargon. Un tempo indicava il gorgheggiare degli uccelli, mentre oggi indica un linguaggio artificiale, composto da molti vocaboli deformati o di significato alterato. Il gergo è quindi una lingua che nasce da una convenzione, parlata da un gruppo più o meno ristretto di persone con l’intento di non farsi intendere dagli estranei e di rimarcare l’appartenenza al gruppo stesso. Il gergo militare, quello studentesco o quello della malavita sono solo alcuni esempi. Un altro caso è quello del gergo giovanile, lo slang, di cui fanno parte termini come “scialla”, “sclerato”, “sbarellare” o “cazziatone”.
Molte persone pensano di poter condannare a priori queste espressioni, considerandole sgrammaticate, ed è normale che sia così perché, per citare la Treccani, “il gergo ha una valenza di contrapposizione alla lingua della società normale e istituzionale e si configura perciò come antilingua che esprime una controcultura di opposizione e di resistenza rispetto alle norme e ai valori codificati”. In realtà, proprio queste variazioni e devianze dallo standard mantengono una lingua viva, apportando neologismi e nuove espressioni. La maggior parte delle parole di un gergo restano confinate ad un gruppo ristretto di parlanti, ma qualche volta alcuni termini trovano terreno fertile e si impongono anche nella lingua nazionale, soprattutto grazie all’intervento di televisione, radio e cinema. Mi viene in mente “Sgrilla”, singolo dei Club Dogo, che hanno sdoganato il termine per intendere “una bella ragazza”. Da “sventola” a “sgrilla”, come passano gli anni.
Ad ogni modo, i gerghi giovanili sono una miniera di parole inventate, spesso assai divertenti. Come può sembrare ovvio, risentono moltissimo dei regionalismi, visto che nascono spesso in ambienti circoscritti, tra gruppi di individui che frequentano le stesse zone. Inoltre, il gergo si evolve col tempo. “Bella di padella”, ad esempio – sempre che sia mai stata usata – non si sente più da secoli.
Ecco una selezione di alcuni termini gergali che piano piano si sono estesi alla loro zona di utilizzo:
- Appizzare, cioè “rovinare” (che secondo me rende molto bene l’idea delle aspettative che si appiattiscono)
- Ammorbare e asciugare, ovvero “annoiare”, “seccare” qualcuno
- Bigiare per “marinare la scuola” (di cui esistono diverse varianti per ogni regione d’Italia)
- Limone, “bacio”
- In botta, “in stato confusionale”
- A muzzo, “a caso”, “malamente”
- A palla, “al massimo” (spesso usato, soprattutto nel Lazio, per parlare di musica ad alto volume)
- Nongio, “vecchio”
- Spoostapoveri, “autobus” .
E ancora gasato, sballo, schianto, sfigato, figo… Potremmo in realtà continuare ancora per molto, perché sono davvero tanti gli usi “fantasiosi” della lingua. Sappiamo che per i parlanti che non condividono questo codice, alcuni termini appariranno brutti, ma è normale che sia così perché questi gerghi vengono usati proprio con lo scopo di evitare la comprensione da parte di persone estranee al gruppo e hanno quindi un’evidente funzione tribale. Inoltre, quando nasce un neologismo, è perché serve ed è utile ai parlanti. Se insomma un tempo c’era l’alfabeto farfallino, oggi va di moda l’inversione delle sillabe per cui “bambina” è stato sostituito da “nabambi”. Come direbbero i giovani romani: stacce!
Alla fin fine, ogni gergo e ogni sottocodice rappresenta una fucina inesauribile di idee che possono contagiare la lingua standard o rimanere confinate ad un gruppo di parlanti. Quel che è certo è che ognuno di noi possiede un determinato idioletto, influenzato da tutte le varianti della lingua a cui siamo sottoposti, oltre che dalla nostra creatività. Il termine “idioletto” è composto dal greco idios e dall’inglese dialect e indica l’insieme degli usi linguistici propri di un determinato parlante, compresi il lessico, la grammatica e la pronuncia. La nozione di idioletto implica una variazione linguistica non solo in rapporto alla regione geografica, alla classe sociale e alla situazione comunicativa, ma anche in rapporto all’uso individuale. Quindi sì, siamo quello che mangiamo, ma siamo anche il modo in cui parliamo.
FONTI:
Linguaggio giapponese maschile e femminile
Scialla! – Accademia della Crusca