Illustrazioni di Jana Walczyk
In “Figli della mezzanotte”, Salman Rushdie inserisce una parola di sua invenzione (in realtà è solo una tra le tante creazioni): chutnification, un termine che diventerà il simbolo del suo plurilinguismo. Chutnification – la commistione tra un piatto indiano, che con il suo gusto forte e pungente è in grado di coprire qualsiasi altro sapore, e un suffisso inglese – sta a indicare la stretta connessione delle due lingue all’interno della sua prosa, l’inserimento di elementi della cultura indiana all’interno di un mondo costruito su parole inglesi e più in generale l’impossibilità di scindere due anime linguistiche e culturali che concorrono entrambe nel definire l’identità di uno scrittore.
Salman Rushdie non è certo il primo né tanto meno l’ultimo scrittore ad aver adottato per la stesura dei suoi libri una lingua diversa da quella nativa. Questa scelta è innanzitutto il frutto di un contesto politico, specialmente nei paesi ex-coloniali in cui il bilinguismo è la regola. Particolarmente esteso è infatti l’elenco di scrittori indiani che scrivono in inglese – basti citare la popolarissima Arundhati Roy, ma anche Vikram Chandra, Amitav Ghosh, Naipaul, Anita Desai – tanto che è in corso da molti anni un’aspra polemica tra gli scrittori in lingue locali e quelli che per formazione o scelta pubblicano in inglese e vengono accusati di “snaturare” il loro paese, offrendone un ritratto esotico, fabbricato ad hoc sulle aspettative di un lettore occidentale. Il dato paradossale è che molto spesso le opere in inglese di autori nativi vengono pubblicate prima all’estero che in India.
Questo conflitto, in realtà, richiama gli attriti ancora più forti che attraversano tutta la letteratura globale contemporanea. C’è un nuovo genere di romanzo che oggi più di ieri parla di espatrio, identità, integrazione. Si tratta di romanzi ambientati spesso in continenti diversi, dove il plurilinguismo è il riflesso di una sempre più evidente transnazionalità, di una fluidità culturale, prodotta sia dalle grandi migrazioni che dalla globalizzazione (sì, anche quella digitale). Questo genere è stato definito global novel e i suoi autori sono spesso cittadini globali che abitano, a seconda della stagione, in parti diverse del mondo, forse non sentendosi a casa da nessuna parte: un sentimento che li spinge a costruire e abitare universi fantastici, mondi ibridi eretti su un lessico contaminato da tante lingue diverse.
Le diaspore di intellettuali e artisti non sono una novità – impossibile non citare il versatile Samuel Beckett e il poliglotta Vladimir Nabokov– ma oggi sono accelerate dalla tecnologia, dal postcolonialismo e dalla globalizzazione, spirali che hanno dissolto le frontiere e reso il mondo quel villaggio globale di cui parlava McLuhan.
Gli expat sono sempre di più, e non sono solo scrittori che hanno abbandonato la loro patria (e anche la loro lingua madre) per sfuggire ai disordini o alla repressione politica.
Quando però è un autore a migrare, egli porta con sé non solo la sua storia, ma anche la necessità di raccontarla: la storia del suo paese d’origine e del paese di destinazione, la storia della sua identità mischiata e frantumata. E questo li rende dei portavoce, nonostante molti non vogliano affatto esserlo.
Stiamo parlando di scrittori come il pakistano Mohsin Hamid, autore del libro più discusso del 2017, “Exit West”; la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, inventrice del motto “Dovremmo essere tutti femministi” e una tra i molti protagonisti della diaspora africana; ma anche di Alexander Hemon e Gary Shteyngart, giunti negli Stati Uniti a seguito dei massicci esodi dall’est Europa durante e dopo la Guerra Fredda.”
Perché questi scrittori hanno scelto di adottare la lingua del paese che li ha accolti? Non possiamo negare che l’inglese sia una lingua globale con un peso enorme nel mondo della letteratura, un mercato più vasto di lettori e conseguentemente un’esposizione maggiore per le opere degli scrittori che decidono di utilizzarla. Inoltre, soprattutto per le ex colonie dell’impero britannico, l’inglese è la lingua delle élite culturali.
Ma i motivi politici non sono gli unici a concorrere verso questa scelta. Scrivere in una lingua altra per uno scrittore equivale spesso a uno sforzo maggiore, all’esplorazione di un terreno di gioco inedito e, come abbiamo visto, può portare a slanci di creatività originalissimi. Lo sa bene Agota Kristof – scrittrice ungherese rifugiatasi in Svizzera dopo l’invasione dell’Armata Rossa – che ha scelto di scrivere in francese: una lingua che ha imparato da zero e che non ha mai padroneggiato completamente. Tuttavia, è proprio questo approccio “analfabeta”, “da bambina” ad aver garantito ai suoi scritti una spontaneità e una forza sbalorditive.
A ciò aggiungiamo pure che l’incontro tra culture e lingue diverse porta a felicissimi esperimenti linguistici, come è avvenuto per il dominicano Junot Diaz e il suo caleidoscopico romanzo “La breve favolosa vita di Oscar Wao” o per il giamaicano Marlon James con il suo “Breve storia di sette omicidi”, una storia che unisce inglese e patois, lingua creola nata in Giamaica nel XVII secolo.
C’è anche chi decide di utilizzare una lingua vicaria per vocazione, affinità, amore. Scrittori che hanno eletto una lingua straniera come patria dei loro scritti, che chissà per quale motivo hanno provato un enigmatico riconoscimento in parole che suonavano ancora sconosciute e incomprensibili. È il caso di Jhumpa Lahiri e Antonio Tabucchi, che hanno deciso di adottare rispettivamente l’italiano (per una scrittrice bengalese) e il portoghese. E se per Jumpha Lahiri scrivere in italiano è stato come “imparare di nuovo a nuotare”, Tabucchi ha dichiarato: “Sono un alloglotta, il portoghese l’ho imparato da grande. Dopo l’ho assorbito in modo tale che è diventata la mia lingua, l’ho adottato. Quando sogni in un’altra lingua, quella lingua è tua. Non è più uno strumento di comunicazione razionale, ma appartiene all’inconscio.”
Le lingue sono lo specchio che riflette l’estensione dei nostri orizzonti, non si tratta soltanto di meri mezzi con i quali comunichiamo. Le lingue portano con sé schemi, mentalità, culture e storie diverse. In letteratura spesso si pasticciano tra di loro, si accavallano e si scontrano. E questo è solo uno dei tanti modi che abbiamo per entrare in altri luoghi, in altre menti, in altre anime, sviluppando empatia e abbracciando il diverso. La lingua non è lo strumento neutrale con cui scrivere storie, la lingua è la storia.