Vecchi gerghi di piazza: il Furbesco e la Parlesìa, tra malavita e musica

Ci sono lingue fatte apposta per non essere comprese; o, meglio, per essere comprese da pochi. Come l’antica lingua dei “furbi”. E un’altra, utilizzata nei secoli scorsi da malviventi e musicisti.
Gerghi di piazza

Illustrazione di Paola Saliby

La lingua è probabilmente il mezzo di inclusione e di esclusione più efficace, può tracciare una linea di separazione immaginaria tra un “noi” e un “voi”. Un aspetto che si accentua soprattutto quando si tratta di gerghi: il gergo crea un senso di appartenenza, di complicità.
Due gerghi “di piazza” – il “Furbesco” e la “Parlèsia” – sono nati proprio da qui, per necessità, ma ancor più come strumenti di coesione e di condivisione, quasi a nobilitare una condizione svantaggiata e di marginalità sociale.

Il Furbesco, o “lingua zerga”

L’etimologia di “furbo” riconduce la parola alla stessa radice del termine francese fourbir, in italiano “forbire”, il cui primo significato è “ripulire”. Ma è un ripulire figurato, sinonimo di rubare.
Il furbo, infatti, anticamente era considerato “colui che spoglia il prossimo, defraudandolo”, colui che con astuzia ripulisce, svuota le tasche del prossimo.
Così, il furbesco (detto anche “lingua zerga”) era la lingua di questi personaggi: piccoli criminali, ladruncoli, borseggiatori, truffatori. Gente costretta a vivere di espedienti illegali e che, come meccanismo tutelare, sviluppò un codice comunicativo esclusivo che gli permettesse di parlare e scambiarsi informazioni indecifrabili da chi furbo non era.
Erano spesso vagabondi, i furbi. E questo nomadismo ha permesso al gergo di attecchire in uguali forme in zone d’Italia anche distanti tra loro. Allo stesso modo, la dislocazione di questa parlata ha favorito anche uno sviluppo indipendente, regionale e talvolta provinciale, sotto l’influsso dei diversi dialetti (il furbesco milanese, ad esempio).
Il principio di funzionamento è piuttosto semplice: si tratta di una sostituzione lessicale all’interno dei parametri dell’antico italiano. La lingua suona come l’italiano, le parole sono italianizzate, ma il loro reale significato è noto solo ai furbi.
Losena, ad esempio, significava “donna”. Morfa, fame; morfezare, mangiare; andare a governo, nascondere.
Del Furbesco si trova una traccia risalente addirittura al 1545, anno di pubblicazione del volume Novo modo de intendere la lingua zerga, non altro che un elenco di parole redatto dal padovano Antonio Brocardo, e che fu ristampato fino al XIX secolo.
Più recente invece il glossario del “Furbesco italiano” del 1846, curato da Bernardino Biondelli e presentato come compendio di lemmi utilizzati dai furbi di tutto il nord Italia, dall’Emilia alle Alpi. E grazie al quale è possibile ricavare un esempio concreto di questa lingua.

Alziamo le aste al faolo e allunghiamo il muro! ad esempio:
“Rubiamo i danari all’ubriaco e scappiamo!”.

La Parlèsia

Napoli, fine Settecento. Uno strano gergo circola tra i vicoli, nei porti, nelle piazze, nelle osterie. Lo parlano i malviventi, alla ricerca di un codice estraneo e incomprensibile a forze dell’ordine e orecchi indiscreti. Ma lo si sente anche, e soprattutto, tra i “posteggiatori”, i musicisti che dietro pagamento vengono mandati sotto i terrazzi e le finestre a cantar la serenata alla ragazza di turno.
Poco a poco, la Parlesìa – che è una variante del dialetto napoletano – diventa la lingua dei musicisti di strada e dei professionisti dello spettacolo, gli artisti che intrattengono gli avventori delle osterie e negli esercizi pubblici, i passanti nelle piazze e nei bassifondi, raccogliendo offerte.
Come i malviventi, anche i musicisti ambulanti e teatranti necessitano di un mezzo di comunicazione veloce e decifrabile solo internamente, vista la loro condizione di precarietà, le frequentazioni dei luoghi più marginali della città e la manifesta ostilità delle forze dell’ordine verso quel tipo di attività girovaga e randagia. Quasi fosse un meccanismo di difesa. Ma anche un modo per sentirsi parte della stessa famiglia.
E il lessico del gergo è legato proprio ai luoghi in cui lavorano e che frequentano (‘o bbuffo è “il palcoscenico”) e agli strumenti che utilizzano (‘o trillante è “il mandolino”; ‘a tròcola, “la chitarra”; ‘o bbianch’e nnire, “il pianoforte”; ‘a bbanèsia, “il denaro”; ‘o ràsto, “il piattino per le offerte”).
E alcuni modi di dire. Appunisce si ‘o jammo base spunisce a banèsia o fa addò va, “cerca di capire se il capo paga oppure no”. E la risposta potrebbe essere ‘o jamme è bbachere ‘ngoppe ‘e bbane, “il tizio paga male”. E ancora: nun appunì bagarìe stanno venenno ‘e giustine, “non fare sciocchezze che arrivano le guardie”.

Musica e malavita, osterie e vicoli: sono questi gli elementi che forgiano il linguaggio, che in qualche modo è resistito fino ai nostri giorni. Lo stesso Pino Daniele ha utilizzato la Parlesìa in alcune canzoni (questa ad esempio) accostandolo all’inglese.

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