È italiana, ma da anni vive negli Stati Uniti, dove sta portando avanti la sua carriera di cantante, rapper e songwriter per altri artisti. È una storia particolare, quella di Lilian Caputo alias Lita. Anche una storia fortunata: figlia di Fiamma Izzo – ex cantante lirica che ha diviso il palco con Luciano Pavarotti prima di diventare, sulla scia del padre Renato Izzo, una delle più apprezzate doppiatrici italiane – la 26enne romana ha avuto la possibilità di scegliere tra cinema e musica, ma circa sette anni fa ha scelto la seconda.
Non prima di aver prestato la voce alla piccola Drew Barrymore nella versione italiana di “E.T. l’extra-terrestre” e di aver accumulato esperienze nel doppiaggio di film, serie tv e cartoni animati, da “Le cronache di Narnia” a “Il mio vicino Totoro” di Miyazaki.
Le sette note, però, hanno avuto la meglio: a 19 anni Lita ha preparato le valigie ed è volata a Boston, dove si è laureata col massimo dei voti al Berklee College of Music per poi lanciarsi nello scintillante mondo del pop americano. Ora lavora perlopiù come autrice per altri, firmando canzoni per artisti come Loren Gray e Liam Payne, ma al tempo stesso sta cercando di farsi strada come cantante e rapper mettendoci la faccia, e questo con brani in bilico tra pop, R&B e hip hop che hanno la peculiarità di mescolare italiano e inglese.
“SAY IT WITH AMORE”
Un singolo di Lita che presenta questa caratteristica è “Ciao Ciao”, pezzo trap-pop che parla di amori estivi intrecciando i due idiomi: “Wait a minute per favore, I don’t speak your language, say it with amore, I could stay here però no”. Lo ha ispirato un’aria dell’opera “La Traviata” di Giuseppe Verdi, che sul finale si sente in sottofondo cantata proprio dalla madre di Lita. Poi c’è “Bionda”, esperimento curioso: una libera rilettura di “Tutti mi chiaman Mario”, canzone italiana dell’inizio secolo scorso. «Me la cantava sempre mia nonna Liliana – spiega Lita –, così ho voluto riprenderne la melodia: era dentro di me da sempre e adesso mi appartiene».
Il testo questa volta è quasi tutto in italiano, e non è quello originale: «Ho fatto delle ricerche prima di riscriverlo, per accertarmi della provenienza del brano, ma non ho avuto molta fortuna: l’unica cosa che so è che si tratta di una canzone risalente a poco dopo la prima guerra mondiale, che forse veniva cantata sulle montagne del nord Italia dai soldati e di cui esistono tre o quattro versioni diverse. Tramandata di generazione in generazione per via orale, ci ricorda il potere del menestrello, che in età feudale perpetuava storie e leggende attraverso la musica. In musica tutto è per sempre».
STORIE DI IERI E DI OGGI
È importante contestualizzare: se la “Tutti mi chiaman Mario” conosciuta da Lita tramite la nonna toccava il tema del femminicidio in un’epoca in cui questa espressione nemmeno esisteva, Lita ne ha ripreso la melodia cambiando le parole e ribaltandone completamente il senso, trasformandola in un inno contemporaneo all’accettazione di sé:
«La mia canzone narra di una donna che continua a cercare una cura, a cercare la propria pace, senza rendersi conto che quella cura e quella pace le ha dentro di sé», spiega la songwriter cresciuta ascoltando Rihanna, SZA e Frank Ocean così come Mina e Lucio Battisti. Alla base, una constatazione: «Mi capita spesso di farmi distruggere dai miei stessi pensieri, anziché usarli a mio vantaggio. È un brutto vizio, ma lotto ogni giorno per contrastarlo e per neutralizzare la negatività»
“IL MIO SUPER POTERE”
Oggi Lita vive a Los Angeles. «Esclusivamente di musica, musica a colazione, pranzo e cena», dichiara lei, che nel 2020 ha anche affiancato i rapper italiani Tedua, Rkomi e Chris Nolan nel singolo “Colori”.
«Scrivo una canzone quasi ogni giorno, se non per me, per altri artisti. Mio nonno diceva sempre che è “beato chi non riesce a distinguere il confine tra il suo lavoro e il suo tempo libero”, e sono grata che nel mio caso sia esattamente così: questo era il mio sogno e lo sto esaudendo».
E a proposito del suo essere divisa tra la cultura americana d’adozione e le sue radici italiane, racconta: «Alla scuola inglese ci sono andata con dei miei cugini, tra di noi l’inglese era diventato l’idioma perfetto per non farci capire a tavola, in famiglia, quando ci confidavamo i nostri segreti. Perciò adesso mi viene così naturale mischiare le due lingue e switchare da una all’altra senza nemmeno accorgermene».
Secondo la 26enne «abitare negli Usa conoscendo un altro idioma oltre all’inglese è come avere un super potere, ci si scopre a frullare tutte le parole che si hanno in testa e a crearne altre ibride». Qualche esempio? «Quando parlo in italiano mi capita di dire “sharare”, dall’inglese “to share”, invece che “condividere”. O ancora, “puoi scootare un po’?”, dall’inglese “to scoot”, al posto di “fammi un po’ di spazio”».