Sono mamma di due bambini i cui anni si contano ancora sulle dita di una sola mano, ma che parlano già tre lingue.
La piccola è più brasiliana che italiana: per intenderci, non conosce canzoncine come “Giro giro tondo” o “Il coccodrillo come fa”; il suo piatto preferito è riso e fagioli e crede di poter bere succo di anguria fresco dappertutto nel mondo, anche sulle montagne innevate dove torniamo ogni anno a passare le feste di Natale, a casa, in Italia. Lei, nel dubbio, ci prova e – quando le spiego il concetto del chilometro zero (ovviamente in “bambinese”) – tutte le volte ci rimane male.
Il grande, invece, è proprio italiano: prima di dormire vuole ascoltare fiabe solo e rigorosamente in italiano (se sono scritte in un’altra lingua devo tradurle simultaneamente mentre leggo, senza fare errori); se potesse mangerebbe pasta anche a colazione e si emoziona ogni volta che torna nella nostro Paese natale o che vede una bandiera tricolore.
Siamo italiani, ma viviamo a San Paolo, in Brasile, quindi:
- l’italiano è la lingua che parliamo tra di noi in casa;
- il portoghese è la lingua della quotidianità; la usiamo per strada, dal panettiere, al supermercato, con la maestra di nuoto in piscina e, in generale, con la maggioranza dei nostri amici;
- l’inglese, solo nel caso del grande che ha iniziato da poco le elementari (questo perché le scuole britanniche cominciano un anno prima rispetto alle nostre), è infine la lingua che si parla con i professori, con cui si scrive, si legge e si impara a far di conto.
Pensate sia una gran confusione?
Lo penso anche io, quando cerco di fare capire ai miei bimbi come si pronuncia la “R” in italiano. “Dite rana. Ramarro. Marrone. Rospo. Ratto”, ma niente. In portoghese questa consonante quasi non si sente, salvo eccezioni, e in inglese ha tutt’altro suono.
Lo penso anche io, quando provo a spiegargli che la “N” di “banana”, “Bianca” o “Anna” per noi non ha un suono nasale.
Lo penso anche io, quando li aiuto a tradurre le parole che non conoscono e che per loro esistono in una sola lingua (la prima in cui le hanno imparate). La scorsa estate, la più piccola ha mandato in crisi amici e parenti piangendo per ore perché cercava la “chupeta”. Nessuno la capiva, ma lei voleva il ciuccio. Allo stesso modo, un giorno, a San Paolo, sono tornata a casa mentre il grande cercava di spiegare alla babysitter che non aveva perso il cappello, ma l’aveva lasciato a scuola, nel “locker” (armadietto) e lei annuiva dubbiosa.
Lo penso anche io, quando correggo accenti sbagliati e mia figlia mi dice arrabbiata “mamma, mio fratello mi imìta” (in portoghese si dice così ed è facile fare confusione visto che le due parole sono praticamente identiche). O quando cerco di eliminare dal loro vocabolario le parole che inventano di sana pianta come “voglio bebere” (“da beber”, bere in portoghese) o “sto kickando la palla” (da “kick”, calciare in inglese).
Ma, anche se questo lavoro sembra difficile, mi rendo conto che in realtà non lo è più di tanto. In fondo, la mia spiegazione è sempre che la grammatica è così perché è una regola che qualcuno ha stabilito. Punto.
Trovo che sia invece molto più complesso rispondere alle loro domande quando le differenze che ci troviamo davanti non sono grammaticali, bensì culturali o geografiche.
Inverno o estate?
Tra i libri che leggo quasi tutte le sere ai miei figli ce n’è uno, comprato in Italia, che si conclude con una bellissima filastrocca illustrata sulle stagioni.
- Mamma, ma quando disegno dicembre ci metto la neve o il sole?
- Che tempo fa davvero?
- Babbo Natale, con quella pelliccia, qui in Brasile morirebbe di caldo. Non la usa, vero?
- Perché quando andiamo dai nonni dici sempre che è bello passare l’inverno e il Natale insieme e quando invece ritorniamo in Brasile, solo qualche giorno dopo, parli a tutti dell’estate?
La mia spiegazione:
Vi sembra facile dare una spiegazione che non coinvolga i moti della terra intorno al sole, i cicli delle stagioni, gli equinozi, i solstizi e via dicendo? A me no. Il più grande forse ci potrebbe anche arrivare (o fare solo finta di aver capito per farmi smettere di parlare). Ma la piccola? Sono sicura che loro, giunti a questo punto, credano che anch’io non sappia esattamente la risposta e aspettino solo di crescere per scoprirlo e aiutarmi a fare chiarezza.
Saluto, bacio o abbraccio?
Qui in Brasile il contatto fisico è molto presente. In generale capita di salutare le persone molto di più di quel che facciamo noi italiani, anche se non le conosciamo. Di baciarle quando ci presentiamo. Spesso anche di abbracciarle.
- Ma allora mamma, saluto o non saluto?
- Bacio o non bacio?
- Abbraccio o non abbraccio?
- Mamma, ma perché se mi saluta un signore che non conosco in Brasile e io non lo saluto tu ti arrabbi? E perché qui in Italia non posso salutare chi non conosco? Sono o non sono maleducato?
La mia spiegazione:
È difficile stabilire una regola valida in entrambi i Paesi e che risulti coerente per i bambini. Anch’io, nella prima settimana in cui faccio ritorno a casa, mi confondo sempre un po’. Mi capita, ad esempio, di dare il buongiorno ad alcune signore che semplicemente incrociano il mio sguardo e che in Brasile, in situazioni simili, avrei salutato. In Italia però, per tutta risposta, finisce che loro si guardano intorno per capire con chi stavo parlando.
Se è difficile per me, immaginatevi per dei bambini, che qui in Brasile sono salutati quasi da tutti, anche per strada, soprattutto quando sono piccoli.
Per non impazzire, ho trovato una soluzione: in Brasile salutate chi vi saluta e in Italia invece salutate sempre chi la mamma saluta (perché ovviamente, regola di tutte le regole, la mamma ha sempre ragione!). Invece gli abbracci in Italia, ma anche in Brasile, dateli in generale ad amici e parenti. E solo se ne avete voglia.
Colazione dolce o colazione salata?
I miei figli adorano pão de queijo, papaia, mango, tapioca, farofa e in generale il cibo brasiliano. Ad una cosa però non si sono ancora abituati e non si abitueranno forse mai (come me del resto): la colazione salata.
- Perché i brasiliani non mangiano la torta col caffè come noi mamma?
- Perché non gli piacciono i croissant alla crema come a noi?
- E i biscotti?
- E le fette biscottate con la marmellata?
- Perché invece adorano le uova, il prosciutto e il formaggio?
Quando viaggiamo con gli amici e ci portiamo dietro la spesa sappiamo che alcuni prodotti, generalmente quelli della colazione, sono stati acquistati solo per fare piacere a noi “gringo” (ovvero, a noi stranieri). Ricordo quella volta in cui, in spiaggia, il papà di una bambina mi disse ridendo: “stamattina mia figlia aveva talmente voglia di mangiare una torta al cioccolato che si è inventata una storia a cui non crederai mai. Mi ha detto che ha studiato a scuola che voi italiani fate colazione così”. Furba la ragazzina!
La mia spiegazione:
Ogni persona ha gusti diversi. Se preferisce può mangiare salato, se invece ne ha più voglia, può mangiare dolce. Non esiste giusto o sbagliato. Fare l’esperienza di vivere in posti diversi è senz’altro il modo migliore per arricchire di sfumature il loro mondo, soprattutto in tenera età.
Come si usano le posate?
Generalmente i bambini brasiliani (ma spesso anche gli adulti) impugnano le posate in modo diverso rispetto agli italiani: la forchetta viene utilizzata a pugno chiuso, totalmente orizzontale, per fermare l’oggetto che poi si provvede a tagliare. In Italia la forchetta si inclina e si punta con l’indice per aiutare il coltello nel taglio.
- Mamma, ma allora la mia maestra mi insegna sbagliato?
- E anche i miei amici sbagliano?
- E pure i tuoi?
La mia spiegazione:
Finche i miei figli non avranno sufficiente maturità per capire le differenze da soli, la mia risposta sarà la stessa che avete letto poco più su: fai come mamma e papà (perché, di nuovo, la mamma e il papà hanno sempre ragione).
Quanti anni hai?
Volete capire se un bambino è brasiliano o italiano senza che apra bocca? Lo sapevate che non c’è modo migliore di smascherarlo che fargli mostrare gli anni che ha sulle dita delle mani? Ora che il più grande è finalmente arrivato a cinque la differenza non è percepibile, ma una volta raggiunti i sei anni per aggiungere il sesto dito dovrà usare il mignolo – e non il pollice – della seconda mano.
La più piccola è invece alle prese con il tre e quindi è ancora “lost in translation”: per lei è normale usare medio, anulare e mignolo per mostrare agli altri la sua età. Io il tre alla brasiliana non riesco proprio a farlo, non mi si alzano le dita in modo spontaneo, a meno che non mi concentri per farlo. Stessa storia per il due e il quattro. Figuriamoci il sei.
- Mamma, ma perché lui fa il tre così?
- E perché tu lo fai in un altro modo?
- Ma è lui che sbaglia? O sono io?
La mia spiegazione:
Dato che i bambini tra loro comunque si capiscono, punto tutto sull’effetto stupore: ” lo sapevate che esistono ben due modi diversi per indicare lo stesso numero con le mani?“. Meraviglia delle meraviglie generale, subito dopo seguita dalla dimenticanza, perché, dopo aver conosciuto qualche amichetto nuovo, le ciance si lasciano agli adulti. Per i bimbi è subito ora di giocare!